Roma città aperta, tra nuove mafie e vecchie consorterie. I giudici: il clan Spada è mafia

Sono state pubblicate ieri le motivazioni della sentenza dello scorso 24 settembre sul clan Spada. Per i giudici della Corte d’Assise si tratta di un “sodalizio mafioso perché ricorre ad intimidazioni e genera omertà”. Dunque la magistratura conferma: a Roma la mafia esiste e si infiltra nelle istituzioni. Prendendo spunto dall’ultima relazione della DIA, abbiamo chiesto al nostro collaboratore Simone Guido una riflessione sulle nuove mafie della capitale

 

 

Dal film “Roma città aperta” (foto Artribune)

 

Nel 1945, Roberto Rossellini denunciava in “Roma città aperta”, capolavoro della cinematografia italiana, il vuoto istituzionale e civico che aveva spalancato le porte alla violenza nazista. Una violenza difficile da contrastare se non con l’impegno di tutti. È quello che più o meno sta avvenendo a Roma sotto il punto di vista delle infiltrazioni mafiose.

In città si continua a sparare, come se nulla fosse. Un’altra persona legata al mondo del narcotraffico è stata giustiziata qualche giorno fa per strada al Nuovo Salario, vittima di un agguato premeditato. Secondo gli inquirenti, il pusher 45 enne era finito nelle maglie di una sanguinaria faida della potente mafia albanese, che controlla diverse piazze di spaccio in città.
È solo l’ultimo caso che fa eco alla relazione semestrale della DIA pubblicata poco più di una settimana fa.

 

La relazione, nella sezione riguardante il Lazio, inizia la sua analisi rimarcando l’assoluta centralità geografica della regione e la vastità territoriale di Roma, sempre più in crescita. Sono questi due elementi che fanno della Capitale un luogo favorevole per una silente infiltrazione dei clan mafiosi. Infiltrazioni che vedono coinvolte indistintamente organizzazioni campane, siciliane e calabresi.

Queste cosiddette “consorterie tradizionali” sono riuscite negli anni a interagire con gruppi malavitosi locali, soprattutto di nuova formazione. Il progetto, implicito o esplicito, di queste mafie è quello di inserirsi nel tessuto economico-sociale della città senza arrivare a uno scontro frontale.

Si è verificato così uno sdoppiamento della realtà mafiosa a Roma: da una parte le cosche tradizionali sono interessate a gestire i loro affari a largo raggio, mentre i clan autoctoni sono impegnati in esperimenti di controllo territoriale, mostrando il loro volto più cruento.

Tale pericolosa commistione è stata definita dalla DIA come un “laboratorio criminale”.

In questo laboratorio la città è stata inquadrata come un grande mercato volto a tutelare gli interessi di tutti: la prostituzione in mano a romeni e nigeriani, i furti e gli omicidi in mano agli albanesi. Per arrivare a tutto ciò, ruolo cruciale è stato svolto dal clan camorristico dei Senese, arrivato a Roma negli anni 90, il primo a sperimentare questo laboratorio.

La camorra ha così organizzato le piazze di spaccio, operative 24h su 24, riproducendo il modus operandi già noto a Napoli e Campania: quartieri periferici, lontani dalle attenzioni istituzionali, che modificano il loro volto in base alle logiche dello spaccio. La droga ha fatto così da volano per i nuovi equilibri, una torta gigantesca per mantenere a freno e ripagare i gruppi autoctoni. Quindi mentre quest’ultimi sono impegnati nella gestione del narcotraffico (rimanendo sempre in contatto con la Camorra e la ‘Ndrangheta), i clan tradizionali hanno dato vita a quella che la DIA definisce “la criminalità dei colletti bianchi” (controllo degli appalti, gestione dei rifiuti, corruzione delle istituzioni), una politica che non poteva essere attuata senza il tacito consenso di funzionari e dipendenti pubblici.

Questa abile strategia ha mandato letteralmente fuori pista sia gli investigatori che la società civile: infatti, non riuscendo a ricostruire una struttura mafiosa piramidale, per alcuni personaggi, non è stato possibile ricondurre le loro azioni al reato di “associazione mafiosa”. In questo modo, molte attività riconducibili ad ambienti e modi mafiosi sono state ridimensionate a meri atti criminali di strada, scaricando la responsabilità sui quartieri periferici più disagiati, come se tali atteggiamenti fossero endemici di una determinata zona.

Ma ogni meccanismo è destinato a mostrare i suoi punti deboli. Difatti dove questo laboratorio ha fallito si è verificato un inasprimento dei conflitti nel territorio (usura senza controllo, minacce, violenza, omicidi) che ha permesso così di riconoscere l’aggravante mafiosa alle famiglie di Rom e Sinti, come i Fasciani o i Casamonica (nel febbraio 2019 la Corte d’Appello di Roma ha sentenziato contro la famiglia Fasciani l’utilizzo del “metodo mafioso” per ottenere il controllo di molte attività lungo il litorale di Ostia).

Non bisogna però abbassare la guardia, perché il laboratorio, nonostante i colpi portati a segno dalla magistratura, continua a perfezionare i suoi ingranaggi puntando a essere sempre più invisibile. I morti ammazzati sono solo briciole lasciate per strade, mostrano equilibri saltati e nuovi assetti da ricercare.

Se le tracce non verranno analizzate da tutti, con la giusta prospettiva, c’è il rischio concreto (alle prossime elezioni) che la Capitale italiana si consegni a questo sofisticato congegno.

 

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