Nelle ultime settimane la parola più in voga, dopo coronavirus, covid-19 e quarantena, è smart working.
Abbandonando per un istante il fascino di usare le parole inglesi per sentirci più internazionali, smart working vorrebbe dire “lavoro agile” o meglio ancora se volessimo attenerci alla traduzione delle particelle che costituiscono la parola, smart significherebbe “intelligente”.
Cosa avrebbe dunque di intelligente questo metodo di lavoro che da anni sta spopolando nel mondo e che solo una pandemia ha portato agli onori di cronaca in Italia?
Avevamo già sottolineato, in un precedente articolo, i vantaggi, sotto tutti i punti di vista, che lo smart working porta con sé: incremento di produttività, abbassamento dei tassi di inquinamento, aumento del tempo a disposizione di ogni singolo lavoratore e molto altro ancora.
Stando agli ultimi dati pubblicati, il numero di posti di lavoro attivabili in Italia in regime di smart working ammonterebbe a 5 milioni, per un incremento di produttività pari a 13,7 miliardi di euro l’anno.
In Italia, però, questa nuova prospettiva lavorativa stenta a decollare, molte aziende non si fidano di questo metodo e temono un calo della produttività, sottostimando i dati forniti dall'”Osservatorio dello Smart Working”.
Ma, oltre alla diffidenza, a limitarne la diffusione sono la carenza della copertura internet nel nostro Paese (infrastrutture dunque inadeguate) e una legislazione imbarazzante che è ancora lontana dal comprendere bene cosi significhi “lavoro intelligente” o “lavoro agile”. Vediamo allora alcuni punti della legge attualmente in vigore (parliamo della legge n.81 del 2017), seguiti da due casi aziendali di raffronto.
L’azienda che offre questa opportunità, seguendo gli articoli 18 e ss., si impegna a fornire la strumentazione adeguata:
- Un computer
- Uno smartphone
- Una sim dati
Insomma, tutto quelle che serve per poter garantire la continuità lavorativa.
Una volta fornita la strumentazione, l’azienda si impegna a indicare il suo corretto utilizzo, nonché le ottimali modalità di svolgimento dell’attività con riferimento alla protezione della persona, e dei beni in suo possesso.
Il lavoratore che accetta la modalità di smart working è obbligato a:
- Garantire l’abitabilità dei locali in cui lavora (divieto di lavorare in locali interrati, in sottotetti o ammezzati che non hanno i requisiti di abitabilità).
- Garantire la conformità dell’impianto elettrico.
- Garantire la conformità dell’impianto termico.
- Disporre di un locale che abbia uno spazio di circa 10 mq, che sia mantenuto in condizioni di igiene adeguata e che abbia un idoneo ricambio d’aria, come finestre apribili, ventilazione forzata, ecc.)
- Disporre di temperature adeguate alle esigenze dell’organismo umano.
- Disporre di luminosità naturale e artificiale, evitando riflessi sullo schermo.
- Disporre di un piano di lavoro con dimensioni sufficienti ad accogliere un laptop e l’eventuale documentazione cartacea e di una seduta che consenta di ottenere una postura corretta.
Questi sette punti che il lavoratore è tenuto a rispettare sono al di fuori di ogni logica del significato di lavoro agile.
Disporre di un locale di 10 mq, con tutte le conformità, equivale a creare una fotocopia dell’ufficio aziendale nella propria abitazione (la legge infatti non tiene conto che molte abitazioni non dispongono di queste metrature da poter sacrificare per uno studio personale).
Così il lavoratore non entra in una nuova modalità ma sposta semplicemente il suo ufficio, quando invece il senso del lavoro agile sarebbe quello di incrementare la produttività attraverso la fruizione di un migliore stile di vita.
In molti paesi questo equivale per l’azienda al liberarsi da tutti questi vincoli e pretendere il rispetto delle consegne lavorative.
L’azienda dunque non quantifica il valore del proprio dipendente per le ore che egli trascorre dietro una scrivania, ma attraverso l’operato effettuato.
La qualità del prodotto consegnato risiede nei suoi contenuti, che il lavoratore ha potuto sviluppare in un tempo non riconducibile all’orario d’ufficio.
L’ostacolo più grande dunque alla diffusione di questo metodo risiede nella concezione di produttività che àncora il prodotto e il lavoratore alle ore svolte e non alle sue capacità.
La rivoluzione vera, infatti, che porta con sé la parola smart working risiede nella retribuzione non vincolata alle ore di lavoro. Se la produttività aumenta del 25% è solo perché il lavoratore, stimolato dal chiudere al più presto l’ordine ricevuto, sviluppa migliori capacità intellettive e di problem solving.
Veniamo dunque al raffronto con due casi di cui siamo venuti a conoscenza in questi giorni.
Per il rispetto della loro privacy non indicheremo né il nome dell’azienda né le mansioni che i dipendenti, che ci hanno contattato, svolgono al loro interno.
Il primo caso, che chiameremo “A”, riguarda quello di una grande azienda del nord Italia, con numerosi dipendenti e diverse sedi dislocate in più città.
A: l’azienda attraverso un apposito programma, installato sui portatili dati in dotazione, riesce a monitorare l’inizio dell’attività lavorativa. In questo modo il dipendente manterrà le stesse ore lavorative giornaliere. Per quanto riguarda i luoghi, l’azienda si svincola da ogni responsabilità, chiedendo al lavoratore di trovare un luogo idoneo alla sua sicurezza, che gli consenta la giusta connettività per lo svolgimento del suo operato. In questo modo la connettività è a carico del dipendente, mentre l’azienda si impegna a fornire l’apparecchiatura tecnica che dovrà essere usata solo ai fini produttivi, infatti non sarà possibile per il dipendente utilizzare apparecchiature private. In ogni caso l’azienda si impegna a confermare la copertura assicurativa per qualsiasi tipo di rischio.
Il secondo caso, che chiameremo “B”, riguarda una piccola realtà locale del centro Italia, che ha comunque un ottimo fatturato e diversi dipendenti.
B: si è stabilità un’intesa di partenza tra datore di lavoro e dipendente. Il lavoro sarà effettuato da casa senza vincoli orari, senza monitoraggio e senza vincoli abitativi. Il dipendente si impegna a consegnare a fine giornata un report del lavoro effettuato.
Ovviamente, stiamo parlando di due realtà totalmente opposte, e dunque con due percezioni diverse. Nell’ottica di “Smart” il caso B sembra cogliere a pieno le potenzialità della nuova modalità, mentre il caso A, che per diverse ragioni deve rispondere a maggiori responsabilità, effettua una sorta di commistione tra innovazione e tradizione. Lodevole resta il fatto di svincolarsi dall’obbligo dei luoghi e di garantire comunque la protezione assicurativa. L’azienda del nord Italia, in quanto rappresenta una grande realtà, non potrà mai instaurare un rapporto di fiducia con tutti i suoi dipendenti, come nel caso “B”, e dunque è tenuta a ricorrere al monitoraggio.
Abbiamo comunque visto come entrambi i casi, chi più chi meno, si sono allontanati dalle disposizioni in vigore: nessuno pensa di poter pretendere le garanzie dei vincoli elencati nei 7 punti.
Veniamo allora a un’ultima questione: molte aziende che non possono garantire lo smart working ricorrono alle ferie obbligatorie o alla cassa integrazione. L’ostacolo interno più grande che non riescono a superare è quello della dotazione tecnologica, portatili, pc, tablet, sim dati e chiavette usb per connessione internet. Una volta distribuite tutte le riserve i lavoratori sprovvisti vengono messi in ferie, proprio perché non viene loro consentito di usare le attrezzature personali.
In diversi casi parliamo di portatili da alte prestazioni, che pochi dipendenti potrebbero acquistare da soli, ma in altri casi, il dipendente è tenuto solo a utilizzare un’applicazione, un sito, smistare e inviare e-mail, correggere cartelle di testo, scrivere rapporti o quanto altro, tutte attività che potrebbe svolgere tranquillamente con la propria strumentazione.
Quest’ultima nel tempo potrebbe usurarsi e la responsabilità ricadrebbe anche sull’azienda. In questo caso lo Stato dovrebbe intervenire, rispettando il suo mandato di tutelare il lavoro, stanziando dei fondi per l’acquisto di nuova strumentazione, sia per le aziende che per i privati.
È notizia di questi giorni che le regioni di Lazio e Lombardia, per fronteggiare l’emergenza coronavirus, si stiano muovendo per garantire dei fondi per l’acquisto di materiale tecnologico per tutti coloro che necessitano l’entrata in “smart working”. I fondi saranno messi a disposizione sia delle aziende che dei privati, con bonus a partire da 500 euro.
Quello che ci auspichiamo è che questa situazione di crisi porti all’apertura di un tavolo istituzionale per sanare le falle che ancora sono evidenti nelle leggi in vigore e che i fondi stanziati non siano solo temporanei ma diventino strutturali.
La legge tende a tutelare il datore di lavoro e il benessere del lavoratore, ma in questo caso quello che dovrebbe muovere i fili di tutto è la tutela alla libertà di azione e di movimento, sia per le aziende che per i dipendenti. Non da ultimo, affinché questa rivoluzione possa partire realmente, questa tutela alla libertà dovrà avere come sostrato una nuova concezione di lavoro e di salario.