“I pazzi vanno tenuti isolati dal resto della città”. Era questa la convinzione medica dei primi del 900 che spinse alla creazione del Santa Maria della Pietà, il più grande manicomio d’Europa. Ed è qui che nei primi anni 2000 si avvia la parabola politica di Virginia Raggi.
Nessuna connessione tra le due questioni, si intende, ma è importante fissare questi punti fermi per meglio comprendere la storia che vi raccontiamo oggi e che riguarda il magnifico complesso immobiliare, lasciato in rovina da anni. Un altro esempio di proprietà pubblica che potrebbe essere valorizzata per offrire posti di lavoro, sviluppo culturale ed economico e che invece non riesce a mettere d’accordo le forze politiche, troppo attente al proprio orticello elettorale e poco propense al vero interesse pubblico.
LA STORIA DI IERI. Il complesso nasce nel 1909 su progetto di Eugenio Chiesa e Edgardo Negri e si estende su 130 ettari, composto da ben 41 padiglioni, di cui 24 per le degenze e i restanti per i servizi e gli uffici.
Gli edifici potevano accogliere fino a mille posti letto, immersi in un parco con una magnifica vegetazione mediterranea e più di sette km di strade interne. Insomma quella che oggi definiremmo una grande opera, un vero villaggio isolato dal resto della città e autonomo in tutto.
A leggerlo con occhi contemporanei, il complesso sembra più un lager piuttosto che un ospedale, ma anche questo ci ricorda come la scienza medica possa evolvere e quelle che appaiono convinzioni inattaccabili, col tempo si trasformano in opinioni discutibili (ogni riferimento all’attuale pandemia non è puramente casuale!).
I padiglioni, infatti, erano riservati alle varie categorie di alienati: osservazione, infermeria, tranquilli, sudici, semiagitati, agitati, prosciolti, sorvegliati.
In posizione più lontana erano collocati gli ospedali per i tubercolotici e i contagiosi.
Il Padiglione XVIII era destinato ai soggetti in osservazione giudiziaria, mentre il XIX ospitava i sudici e gli irrecuperabili!
Grazie all’intervento di Maria Montessori e Giuseppe Montesano, i padri della neuropsichiatria infantile, nel 1933 si aprì un reparto dedicato ai “fanciulli parzialmente rieducabili”, che resterà attivo fino al 1975.
Non è questa la sede per discutere della assurdità di questi trattamenti che costituivano una condanna in partenza per i ricoverati che non avrebbero mai avuto possibilità di guarire. Quella reclusione ha provocato il peggioramento e la morte di decine di migliaia di persone durante il secolo che ha registrato i più grandi orrori dell’età moderna.
Qui fu ricoverata Alda Merini e sempre qui Mario Schifano, durante la sua degenza, realizzò su una parete una delle più belle opere murarie del 900, purtroppo andata perduta sotto una mano di intonaco decisa da un muratore durante uno dei pochi lavori di ristrutturazione (!).
Fu solo grazie all’intervento scientifico di Franco Basaglia che strutture del genere vennero chiuse e riconvertite. Ma a Roma, la parola chiusura va di pari passo con abbandono mentre in tutta Italia gli ex manicomi sono diventati qualcosa di magnifico (ad esempio l’ex Paolo Pini di Milano). A Roma no, qui restano solo le rovine.
LA STORIA DI OGGI. Dalla cessazione delle attività psichiatriche, i padiglioni furono lasciati a loro stessi e per circa 30 anni si è dibattuto sul futuro destino senza mai trovare una quadra. La Asl Roma 1 è proprietaria di 22 edifici. Altri 12 sono in mano della Regione Lazio, mentre il Municipio XIV ha in uso 5 padiglioni. Ve ne sono poi due occupati.
Girando per il parco ci si imbatte in edifici cadenti, con ingressi sbarrati e finestre murate. La gran parte sono puntellati per evitare la caduta di tegole o fregi architettonici, il parco versa in condizioni disastrose pur mantenendo la sua magnificenza originaria. Ecco qualche esempio.
Le parti meglio mantenute sono: il maestoso ingresso principale con l’edificio di accoglienza e degli uffici.
I giardini della piazza centrale.
L’interessantissimo Museo della Mente che merita una visita, perché apre uno squarcio sulla follia non dei ricoverati ma di chi li “curava”.
E il centro per le cure palliative Antea, che accoglie malati terminali, gestito da una fondazione privata.
Tutto il resto è in totale abbandono, tranne alcuni padiglioni oggi utilizzati come ambulatori e qui si stanno svolgendo in queste settimane i tamponi drive-in per la ricerca del Coronavirus.
LA DESTINAZIONE FUTURA DEI PADIGLIONI. Nel 2003 furono raccolte novemila firme, mentre nel 2014 un comitato di cittadini (“Comitato Si può fare”) avanzò una proposta di legge di iniziativa popolare che non fu mai discussa. Parte di questa proposta finì in una delibera capitolina a firma 5stelle (Raggi, Stefàno, De Vito), e prevedeva una parziale destinazione socio culturale di alcuni padiglioni.
In realtà sarebbe bastato seguire quanto stabilito dal Piano Regolatore che definisce il Santa Maria della Pietà una centralità urbana. Questo significa che, date le sue dimensioni, alcuni padiglioni sarebbero potuti essere messi a reddito (attività private, ostelli, uffici) e col reddito ricavato si sarebbero potuti ristrutturare altri padiglioni da destinare ad attività culturali pubbliche.
Ma in 30 anni questa filosofia non è stata condivisa da tutti e le delibere regionali che si sono susseguite (nel 2016 si definì la creazione di un Parco della Salute e del Benessere) sono rimaste sulla carta.
L’ultimo provvedimento risale a un anno fa. Nel giugno del 2019, il presidente Zingaretti annunciò lo stanziamento di 17 milioni (10 della Regione e 7 della Asl Rm 1) per restaurare parte dell’ex manicomio. Il progetto prevede che un padiglione sia destinato a sede del NUE (il numero unico di emergenza 112), un altro alla Casa della Salute e poi un centro di formazione per operatori sanitari.
Inoltre è prevista la rinascita dei magnifici giardini e la realizzazione di due ostelli. Il comunicato dell’epoca assicurava che gli ostelli avrebbero aperto entro fine 2019. Stendiamo un velo su queste promesse e cerchiamo di capire perché tutto quello che si decide su questa struttura non viene realizzato.
QUI NASCE IL 5STELLE ROMANO. Gli edifici pubblici a Roma sono sempre oggetto di interessi contrapposti. I privati sperano di ottenerli con poco per realizzarvi uffici , appartamenti o alberghi. I partiti pensano di usarli per concedere mance elettorali ai loro fedelissimi. I centri sociali di sinistra e gli occupanti di destra tendono a requisirli per farne la propria sede.
Al Santa Maria della Pietà questo copione si è ripetuto come un film già visto. Una serie di proposte di legge presentate da destra, sinistra e 5stelle – che è impossibile qui elencare ma che trovate tutte in un completo articolo di Carteinregola – hanno indicato diverse destinazioni dei padiglioni. Ma sempre con una costante: per l’ex Lavanderia nessuno ha osato proporre lo sgombero degli occupanti. Tanto meno i 5stelle che avevano creato qui il loro quartier generale, dividendolo con frange di sinistra vicine a Rifondazione Comunista.
Una giovane candidata alle elezioni comunali del 2013 per i pentastellati si chiamava Virginia Raggi e proprio qui all’ex lavanderia fece una delle sue prime apparizioni, presentandosi ai potenziali elettori. Alla domanda se fosse stato opportuno o meno partecipare a un evento in un luogo occupato illegalmente, proprio per lei rappresentante di una forza legalitaria, non ha mai risposto, nonostante le sia stato chiesto più volte.
Peccato che tra gli occupanti ci fosse stato suo marito, Andrea Severini e sempre qui si era formato politicamente quello che poi diventerà il presidente grillino del Municipio, Alfredo Campagna, autista Atac assunto in azienda per chiamata diretta. La curiosa storia si trova riassunta in una lettera ben informata pubblicata da Rfs.
L’abbiamo solo accennata perché spiega il motivo per cui questi anni di sindacatura Raggi non abbiano smosso di una virgola le sorti dell’ex manicomio. E anche Zingaretti, sebbene abbia abbozzato un progetto di rilancio, non si è certo distinto per aver lavorato pancia a terra alla rinascita del complesso.
Alla domanda su quale sarà il futuro del Santa Maria della Pietà al momento non si può rispondere, ma basterebbe ispirarsi a tanti esempi italiani tra i quali l’ex ospedale psichiatrico di Trieste, oggi diventato un magnifico parco con uno slogan ancora più bello: “Da luoghi della sofferenza a quelli della bellezza. Una trasformazione possibile”.
Per le precedenti puntate di “Città in Rovina” clicca qui
2 risposte
Negli anni qualcuno parlò anche della possibilità di farne un polo universitario.
Il giardino è magnifico ma curato poco o nulla, potrebbe essere un meraviglioso parco cittadino, invece arranca, con la tristezza dei padiglioni chiusi o murati. Sarebbe bello che potesse essere usato dalle associazioni (come dalla virtuosa Antea) col patto che ne curassero la manutenzione, verde incluso. Un vero peccato, un grande spreco e un grande dispiacere per i cittadini che potrebbero fruirne ancor più di quanto non facciano oggi. Semi-aperto alle auto (sacrosanto l’utilizzo per chi ne ha vera necessità, ma solo per loro) circolano tante biciclette e runners.
Pensate a quello che sta succedendo al vecchio Forlanini: di proprietà anch’esso della Regione Lazio, risulta abbandonato nella maggior parte dei suoi padiglioni,
A poca distanza dalla stazione di Roma Trastevere e quasi nel cuore di Roma, è un complesso importante anche dal punto di vista storico e architettonico.
Ebbene, la regione del fratello di Montalbano sta per prendere in affitto un complesso di uffici sulla via Anagnina dove porterà alcuni suoi uffici che attualmente sono sparsi in tutta Roma, per farne un polo unico e risparmiare sulle locazioni.
Anche in quel caso, una amministrazione pubblica preferisce spendere soldi pubblici in affitti piuttosto che investirli nel recupero di un patrimonio edilizio di proprietà (poi che scelga di utilizzarlo per sè o metterlo a reddito sono scelte politiche sue)
Un Paese assurdo pieno di stortùre