Nelle ultime settimane si è tornati a discutere sulla natura delle cosiddette tag, ovvero le firme dei presunti artisti di strada. Alcuni ancora oggi sostengono che queste, firme o, a volte, anche brevi sigle, siano manifestazioni artistiche, altri ribadiscono invece l’illegalità di questi gesti, effettuati per la maggior parte su proprietà private come serrande, vetrine, palazzi e furgoni.
Non vogliamo di certo addentrarci nella questione della street art, ormai sdoganata da tutti i suoi dogmi e accettata come vera e propria arte con le sue regole, le sue espressioni e, soprattutto, la sua storia.
Discorso a parte meritano, invece, le tag, poiché, nonostante queste siano strettamente legate alla realizzazione dei murales in quanto firma dell’artista, nel corso del tempo si è innescata una strana sconnessione dal suo contesto originario. I writers, infatti, si distinguono, ormai, nettamente dai graffitari che, invece, si dilettano a imbrattare angoli della città.
La tag rappresenta la manifestazione individuale di una rottura delle regole e della non curanza delle leggi, fino al capovolgimento stesso del senso civico. Anche questo fenomeno gode di una sua storia che risale fino al primo dopo guerra, quando in America iniziarono a comparire le famose scritte, poi accompagnate dai disegni stilizzati, di Kilroy.
Da lì prese avvio la tendenza a lasciare il proprio nome lontano dal quartiere di residenza come a voler marcare il territorio con la presenza del proprio gesto “artistico”. La firma infatti avviene con straordinaria rapidità, risponde anch’essa ormai a delle regole di realizzazione e classificazione, e tutto questo ha reso nel tempo la gestualità dell’atto come una dimostrazione di abilità e ingegno. Vengono realizzate nei posti più disparati, coprendo altre tag o sbeffeggiando i murales, e come nella grafia hanno guadagnato delle movenze che le rendono riconoscibili soltanto a chi le pratica, creando così una comunicazione strettamente riservata e autoreferenziale.
Negli anni Settanta e poi negli anni Ottanta, la scena urbana venne considerata come un mondo artistico in fermento. Lo stesso Keith Haring decise di esprimere la sua arte nei vagoni della metropolitana di New York, privilegiando la forma del graffitismo. Erano comunque anni di grande tensione sociale in cui artisti, collettivi, movimenti e molto altro lasciavano e lanciavano messaggi per raggiungere il più vasto pubblico possibile e influenzare il dibattito attraverso disegni e frasi provocatorie.
La storia è piena di queste espressioni sociali e non occorre rinsaldare il loro legame, come vorrebbe fare qualcuno, con le prime forme di scrittura a sgraffio nell’antica Roma, o come il rinascimento romano dove i palazzi dei cardinali erano ricoperti da murales, ma anche le pasquinate o i messaggi politici contro lo Stato della Chiesa durante il Risorgimento.
Che la scrittura sia la prima e più spontanea forma di comunicazione sociale dell’uomo è una constatazione banale e superficiale. Cercare, nel 2021, di accademizzare il graffitismo, minimizzando gli atti vandalici compiuti dagli autori, è soltanto un’azione anacronistica che lede nel profondo tutta la storia di emancipazione della street art. E, come dicevamo prima, la gran parte delle tag oggi sono totalmente sconnesse dalla loro storia.
Così, la questione dirimente resta la convivenza del decoro urbano con un più alto senso civico. Da una parte abbiamo i detrattori delle tag, che chiedono una presenza importante dell’amministrazione per una gestione accurata e decorosa degli spazi comuni; dall’altra abbiamo chi le difende, con gradi di attenzione differente, oppure chi invita le persone a concentrarsi maggiormente su problemi più stringenti della città.
Ritorna allora in voga il famigerato senso civico. Nel maggio del 2015, Diario Romano aveva indirizzato una lettera aperta al famoso fumettista Zerocalcare, in risposta ad un suo contributo apparso su Repubblica, nell’inserto La domenica del 15 maggio. L’artista rimarcava, con la sua indiscussa genialità, quello che doveva essere il “senso civico” in una città, domandosi come potrebbe apparire la polis dei sostenitori del decoro urbano, di coloro che sui social attaccano duramente (in maniera anche violenta) i writers, i graffitari o i senza tetto. Nella “città dei puffi” l’ipertrofia del senso civico offuscherebbe i cittadini dai reali problemi della città, rendendoli cinici e indifferenti, fomentati anche dai movimenti in rete antidegrado.
Diario Romano nella risposta espose il perché invece il decoro urbano sia un elemento imprescindibile e come la diseducazione, soprattutto artistica, crei dei seri problemi a semplici cittadini. Nella lettera vennero linkate delle testimonianze di artigiani romani martoriati, soprattutto economicamente, dall’azione dei graffitari e offesi dalla definizione di artisti che qualcuno cercava in ogni modo di attribuirgli.
La redazione concordò con l’artista sul concetto di “indifferenza”, legato ai grandi problemi della città, cercando però di capovolgerne la prospettiva. Infatti, sono proprio i comitati di quartiere e i blog antidegrado che, inserendosi nei coni d’ombra di un’amministrazione, garantiscono un ritorno alla tensione sociale per rompere un circolo vizioso senza fine, pervaso da due sentimenti: la rassegnazione e il trionfo dell’individualismo. L’agire di queste persone, che siano azioni di pubblica piazza o anche singoli articoli di blog, ha il compito di risvegliare la collettività su un bene materiale e immateriale per cui valga la pena combattere.
Quando un senza tetto muore per strada, o viene abbandonato a se stesso, quando uno svuota cantina riversa i rifiuti in una riserva naturale, quando una famiglia è costretta ad occupare una casa pur di non finire per strada, oppure quando un ragazzo devasta di scritte una proprietà privata o un parco pubblico si è di fronte al fallimento del senso civico, al fallimento delle politiche sociali, al trionfo dell’individualismo e della rassegnazione. Sono certo problemi con gravità nettamente diverse, ma se non ci fossero i comitati, i blogger, gli attivisti, che premono dal basso, molti servizi pubblici si sarebbero impantanati nelle maglie della burocrazia, della politica delle stanze e, cosa ancor più grave, nel silenzio generale.
Le tag non possono sottrarsi da questo processo solo perché legate ad una più nobile forma di arte. Nel febbraio del 2019, sulle pagine di Artribune, Claudio Musso si chiedeva giustamente “che mondo sarebbe senza graffiti?”. La domanda non è minimamente retorica e si riallacciava al problema di come i graffiti siano dei succulenti elementi di campagna elettorale, vittime di una repressione in nome della lotta al degrado. Anche qui l’autore cercava, però, una sorta di salvacondotto ricollegando la tag ad una più profonda espressione artistica.
Dunque, il problema di fondo resta l’anacronismo di queste manifestazioni. Se volessimo accogliere per un momento nella percezione collettiva il gesto provocatorio, l’espressione sociale rappresentata dalla scritta, non potremmo non rimarcare come questa debba comunque essere contestualizzata in una fase transitoria che non ha nessun diritto nel rivendicare un’inviolabilità.
Perché, in fondo, la questione si riduce ad un assunto molto semplice: è nel diritto di un cittadino chiedere la rimozione di una tag o anche di un murales che lede un bene privato, è nel diritto di un comitato di quartiere chiedere l’intervento dell’amministrazione per vigilare e tutelare degli ambienti comuni, ma non potrà mai essere un diritto scrivere sui muri, sui furgoni o sulle vetrine di un negozio, perché la street art, volendo qui includere anche le tag, resta e resterà sempre un’espressione provocatoria, destinata ad essere preservata in alcuni contesti ed essere cancellata in altri, sarà commissionata e perseguita nello stesso tempo.
Se così non fosse, Banksy non avrebbe distrutto la sua opera messa all’asta, proprio perché non voleva che fosse considerata arte. Molti artisti vengono apprezzati per quello che realizzano in periferia, nelle stazioni ferroviarie e metropolitane, le opere vengono commissionate in appositi spazi, altre, anche se spontanee, sono preservate perché accettate dai residenti, ma molte, soprattutto le tag, saranno destinate all’oblio perché figlie di un momento, anzi, di un movimento rapido e inconsulto, una firma provocatoria, anarchica, lanciata contro qualcosa, contro qualcuno, un capovolgimento di valori che spesso non ha nulla a che fare con la storia della street art.
Evolve il senso civico, evolve l’espressione artistica, due sfere che si incontrano e si scontrano di continuo. Ma oggi, se un ragazzo lasciasse il suo nome, la sua sigla o il suo nickname su un vagone di una metro o su una panchina di un parco pubblico, manifesterebbe la sua percezione di libertà nel rompere gli schemi, ma quel gesto non farebbe di lui un Keith Haring, finirebbe solo per essere la caricatura stessa di un fermento culturale che cambiò per sempre il modo di fare arte, ma che oggi vuole essere altro.