Aspettavamo che si rifacesse sentire il Corriere della Sera e non siamo stati smentiti: seppur con un po’ di ritardo rispetto al passato, ecco l’ennesimo articolo che lamenta lo stallo ultradecennale nella ristrutturazione dello stabile di via del Corso che una volta accoglieva le sale del cinema Metropolitan.
Anche in questo caso il Corriere non fa un buon servizio ai propri lettori, offrendo una visione di parte che non fa comprendere perché un cinema chiuso da 12 anni non si riesce a riaprire o a trasformare in qualcos’altro. Nell’articolo infatti si fa cenno ai recenti lavori con i quali è stata rimossa la bella pensilina che caratterizzava il fronte dello stabile (un vero delitto!) dicendo solo che all’interno i lavori non possono partire perché la Regione Lazio non condivide il progetto di ristrutturazione.
Sempre nell’articolo del Corriere si lamenta il fatto che l’impossibilità di procedere con i lavori stia fermando “… i 7 milioni di euro offerti dalla proprietà dell’edificio, la Dm Immobiliare, al Campidoglio per riqualificare altre aree comunali” e che siano sospesi “… i 60 posti di lavoro da impiegare per la trasformazione dell’ex cinema in megastore con sala culturale“.
Che cattivona questa Regione Lazio, diranno i lettori del Corriere, che blocca un tale bel progetto apparentemente senza motivo.
Ancora una volta allora provvediamo noi a dare le informazioni complete sul perché dal 2010 il cinema Metropolitan è chiuso e abbandonato, e lo facciamo riprendendo una parte dell’articolo che pubblicammo a marzo dello scorso anno:
“C’era una volta il cinema Metropolitan, l’ultimo grande cinema di via del Corso. Aperto la prima volta nel 1911 come Cinema Teatro America, nel 1923 aveva cambiato nome in Cinema Gioia e infine nel 1948 in Cinema Metropolitan, nome che conservò fino al dicembre 2010, quando fu repentinamente chiuso.
Fu quella una chiusura inaspettata e improvvisa, proprio nel bel mezzo delle vacanze di Natale, tradizionale momento di picco per l’attività dei cinema. La proprietà era però da poco passata di mano ed evidentemente i nuovi proprietari avevano ben altre mire che accontentarsi dei pur dignitosi guadagni che la gestione assicurava, grazie alla specializzazione nei film in lingua originale. E di pubblico quel cinema ne aveva, come attestano anche le migliaia di firme raccolte in poco tempo per cercare di scongiurare la chiusura.
Legittimamente dunque nel 2010 la proprietà decise che tutta la struttura dedicata all’attività cinematografica non fosse più giustificata e propose un cambio di destinazione d’uso.
Orbene, la normativa vigente prevede la possibilità di cambio d’uso per un edificio a destinazione culturale, ma con il limite del 50% della superficie. Trattasi, com’è facile immaginare, di norma di buon senso pensata per difendere un minimo di offerta culturale anche in zone che altrimenti verrebbero tutte riconvertite al puro commercio.
Considerato infatti che non si può vivere di solo commercio, ma che le persone hanno anche bisogno di librerie, cinema, teatri e musei, è indispensabile che le normative tutelino queste ultime destinazioni che altrimenti verrebbero naturalmente a scomparire a favore di altre molto più redditizie.
D’altronde quando qualcuno acquista un cinema lo paga in quanto tale, ben sapendo che al massimo potrà riconvertirlo al 50% in qualcos’altro, mantenendo però il resto a destinazione culturale.
Nel caso del Metropolitan la nuova proprietà deve aver invece pensato di fare il colpo grosso: acquistare un cinema e poi convincere la politica che esso non era più giustificato in quel luogo e che quindi lo si poteva chiudere, trasformando il tutto in un grande magazzino, possibilmente di qualche marchio del lusso (che fa più chic).
Ad essere precisi, da un punto di vista formale il progetto della proprietà non prevede la totale scomparsa del cinema, bensì il suo ridimensionamento a circa il 14% della superficie totale; ciò equivale, nella migliore delle ipotesi, ad una saletta da un centinaio di posti al massimo che solo la totale malafede di qualcuno potrebbe far considerare ancora un “cinema”.
D’altronde un’operazione in tutto e per tutto simile è già avvenuta a Roma, per di più non lontano proprio dal cinema Metropolitan. In piazza in Lucina infatti, sempre su via del Corso, un tempo c’era il prestigioso Cinema Etoile, anch’esso risalente agli inizi del ‘900, che però nel 2011 è stato trasformato in grande spazio commerciale mantenendo come foglia di fico una striminzita saletta cinematografica al primo piano di cui nessuno sa nulla. Godibile, seppur molto amara, la storia di quel progetto fatta dal sito Dagospia nel 2012.”
In quell’articolo è anche accennato il tentativo solitario della consigliera capitolina M5S Monica Montella che, unica nel suo gruppo, segnalò alcune possibili opacità del progetto.
Fortunatamente la Regione Lazio a maggio dello scorso anno ha inequivocabilmente ribadito la propria contrarietà al progetto di riconversione pressoché totale del cinema, chiedendo una revisione del progetto.
È vero che la maggioranza capitolina è ora di colore analogo al governo regionale (a parte l’appoggio fornito lì dal M5S) e che si è già dimostrata estremamente ricettiva su ogni richiesta di carattere commerciale (lo dimostra la chiara intenzione di prorogare tutte le OSP emergenziali, oppure il non voler procedere con la riforma degli impianti pubblicitari), ma non si vede come la Regione Lazio possa ora cambiare atteggiamento senza che la proprietà modifichi il progetto riservando il giusto spazio ad una o più sale cinematografiche.
C’è poi un nuovo elemento di cui tenere conto ora, collegato alla motivazione principe addotta dalla proprietà per riconvertire tutto lo stabile, ossia che i cinema non vanno più.
Ebbene c’è ora il caso del cinema Trosi, riaperto dai ragazzi del Piccolo America a settembre 2021, a dimostrare che non è vero che i cinema non vanno più. A marzo scorso c’è stato infatti un articolo del Il Sole 24 Ore che ha dato conto degli ottimi risultati dei primi sei mesi della gestione della nuova sala.
Dall’articolo:
“In un panorama cinematografico affossato dal Covid, con sale chiuse e spettatori in calo, spicca una realtà in controtendenza: il cinema Troisi gestito a Roma dall’associazione Piccolo America, monosala a Trastevere a due passi dallo storico Nuovo Sacher di Nanni Moretti.“
“In soli sei mesi il cinema Troisi ha superato di gran lunga la media di incassi dei monosala in Italia nel 2019, che è di 82mila euro“.
“Dietro il successo c’è un nuovo modello di cinema. «Le sale erano già in crisi prima della pandemia – spiega Carocci -. Il Covid ha inferto il colpo finale a un modello gestionale basato sulla mera proiezione dei film. Noi abbiamo puntato a trasformare il cinema in un luogo di aggregazione legato al territorio, una casa che funziona come operatore culturale vivente». Ecco perché accanto alla sala da 300 posti dove vengono proiettati quattro film differenti al giorno (sia “mainstream” che “d’essai”) solo in lingua originale, c’è un’aula studio Tim con 45 postazioni interne e 32 esterne, aperta 365 giorni l’anno, frequentata in media da 200 persone al giorno; e un foyer bar con prodotti delle botteghe alimentari di Trastevere.”
Quindi non è vero che i cinema non vanno più. Non funzionano più le gestioni tradizionali, ma se ci si aggiorna e si innova c’è modo anche per i cinema di sostenersi economicamente.
In conclusione noi diremmo che le amministrazioni comunale e regionale farebbero bene a comunicare alla proprietà la necessità di rivedere il progetto attenendosi a quanto previsto dalla normativa vigente, accontentandosi quindi di riconvertire la metà della superficie utile. D’altronde quello che hanno pagato per acquisire lo stabile avrà senz’altro tenuto conto di un tale limite per cui non si vede perché concedere un premio immotivato.
Se poi l’attuale proprietà non è in grado di gestire il cinema con le modalità richieste dai più moderni modelli gestionali, può sempre affidarlo a chi sa farlo (magari gli stessi ragazzi del Piccolo America sarebbero disponibili a subentrare) oppure rivendere tutta la proprietà.
Tutto questo non è contrarietà preconcetta ai legittimi interessi commerciali, bensì tutela dell’interesse pubblico, una cosa che tutte le amministrazioni pubbliche dovrebbero tener ben presente.
L’amministrazione Raggi non l’ha fatto, mentre la Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti sì.
Come si regolerà l’amministrazione di Roberto Gualtieri?
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