Nel maggio del 2017 Virginia Raggi promise di superare il problema dei campi rom dichiarando che “avrebbe portato Roma in Europa”, ribadendo che si sarebbe finalmente realizzato quello che la città chiedeva da anni. Il piano della giunta, definito da Beppe Grillo “un capolavoro”, prevedeva la chiusura dei sette campi ufficiali (tra i quali la Barbuta, Castel Romano, via Candoni) e il ricollocamento delle persone. Tutto sarebbe dovuto ruotare attorno alla politica del bonus casa, offrendo l’affitto di immobili con contributi fino a 800 euro. In seguito, sarebbe stata bandita una gara per la demolizione delle baracche esistenti. Sul fronte della spesa pubblica la sindaca promise, con orgoglio, che il tutto sarebbe stato finanziato dall’Unione Europea senza spendere soldi dei cittadini romani.
Come sono andate a finire le cose?
I fondi europei non sono bastati, per questo il Comune ha fatto ricorso alle proprie finanze. Nel mese di dicembre 2020, poco prima di Natale, è stato pubblicato un bando per la ricerca di alloggi temporanei destinati all’accoglienza delle famiglie rom in uscita dai campi per un importo base di 1.785.726 euro. Ma di questa cifra, solo 900 mila euro sono stati versati dall’Unione Europea, mentre i restanti 885 mila provengono dalle casse comunali.
Il fallimento non risiede tanto nella promessa mandata in frantumi, quanto nei dati che vanno in controtendenza rispetto al concetto di superamento delle baraccopoli:
- I due grandi campi, la Barbuta e la Monachina, dovevano chiudere entro la fine del 2020, mentre sono ancora aperti e operanti.
- Dei 586 abitanti del maxi campo la Barbuta nessuno ha utilizzato gli strumenti messi a disposizione dal Comune.
- Nel campo la Monachina solo 4 famiglie hanno utilizzato il bonus.
- Dei 400 abitanti del Camping River solo 6 famiglie hanno utilizzato il bonus affitto per la ricerca di un immobile.
A conferma del fallimento di questa politica, vi sono anche due report.
Il primo, predisposto dal Ministero degli Interni, denuncia come in due anni, dal 2018 al 2020, il Comune abbia sgomberato 104 campi sorti nelle zone periferiche della città; tra lo smaltimento, la bonifica e la ridistribuzione i costi hanno superato i 3 milioni di euro. Inoltre, i piani di inclusione si sono mostrati un vero e proprio buco nell’acqua, negli stessi anni, infatti, la città si è riempita di baraccopoli e roulotte, con 338 campi abusivi e un saldo di 234 microcampi nati dal nulla.
Il secondo è quello dell’associazione “21 Luglio”, presentato lo scorso anno e intitolato “dove restano le briciole”. Questa analisi era nata proprio in seguito ad un monitoraggio delle azioni promesse dalla sindaca. I risultati erano alquanto sconfortanti: aumento del 66% delle presenze all’interno degli insediamenti formali; contrazione del 56%, in due anni, dei minori iscritti alla scuola dell’obbligo, nessun decollo dei progetti inclusivi, sia in ambito lavorativo sia in ambito scolastico.
Queste dinamiche, come sottolineato a più riprese dal partito Radicale, sono innescate dagli sgomberi coatti, partiti ben prima che i processi di inclusione potessero portare dei loro frutti.
Intere famiglie, dall’oggi al domani, si sono ritrovate per strada reperendo in totale autonomia soluzioni abitative provvisorie, rinunciando a qualsiasi tipo di fiducia che si potesse instaurare con le istituzioni. Sempre il partito Radicale, che da tempo cerca di riconnettere il Campidoglio alla vera realtà rom, ha giustamente spostato il focus sul come questi bandi, privi di concreti programmi di accompagnamento, siano solo un esborso inutile per la città: una famiglia di 6 persone verrebbe a costare 100 mila euro l’anno, senza nessuna garanzia di reale inclusione nella società, “contribuendo ad alimentare, e questa volta a ragione, il pregiudizio di chi lamenta disparità di trattamento a parità di disagio a favore di chi vive nei campi”.
Bisognerebbe interrogarsi allora sul perché le politiche inclusive hanno fallito, aprire dei canali di dialogo con le comunità (si veda la realtà tedesca, prima in Europa per l’integrazione rom, dove le istituzioni garantiscono anche e soprattutto un sostegno psicologico che favorisca una spontanea volontà di cambiamento) e non riversare soldi in un sistema che non porta a nessun traguardo.
Ovviamente, dal Campidoglio non trapela nessuna presa di coscienza del fallimento, anzi, come viene ribadito da Monica Rossi, assessora delegata all’inclusione di Roma Capitale, il nuovo bando rientra tra le misure preventivate nel piano rom di tre anni fa, con la delibera 105/2017, anche se questo non viene esplicitato in nessun passaggio.
L’opposizione parla, invece, di ennesima azione propagandistica della sindaca, in vista delle elezioni. Le chiusure dei campi, che dovevano essere sgomberati entro il 31 dicembre, magicamente sono state prorogate a “fine mandato”.
Forse, anche questa volta, l’amministrazione ha perso un’occasione per riconoscere i propri limiti di fronte a una realtà difficile da governare, che si sarebbe potuta affrontare con un dialogo aperto e costruttivo con tutte le forze politiche.