Nella serata di mercoledì 9 settembre, terzo incontro del festival “Docu-menti. Visioni sul mondo”, organizzato dal comitato di quartiere Don Minzoni, si è discusso dell’emergenza abitativa romana e delle gravi ripercussioni economiche innescate dal Coronavirus.
Don Ben Ambarus, direttore della Caritas Diocesana di Roma, ha aperto la serata con una toccante testimonianza sulla realtà abitativa romana, una questione che l’amministrazione capitolina e le istituzioni di governo faticano a governare e molte volte ignorano le sue drammatiche ricadute nel tessuto sociale cittadino, un tessuto, come ha ribadito Don Ben, forte, ma che sta iniziando a sfibrarsi pericolosamente.
Dal 2014, anche a livello internazionale, si è iniziato a discutere in maniera più dettagliata del problema casa.
Papa Francesco, nel suo intervento per i “Movimenti popolari dell’America latina”, aveva definito la casa non più come un bisogno ma come un “diritto fondamentale dell’uomo”.
Quattro anni dopo, nel 2018, i vescovi irlandesi rilanciarono il monito del papa al governo di Dublino, in una città in cui i senza tetto erano arrivati a 18 mila, vittime di un mercato immobiliare senza regole che aveva portato i prezzi degli affitti a cifre esorbitanti: per un posto letto bisognava sborsare la bellezza di mille euro mensili.
Partendo, dunque, dall’esempio irlandese, Don Ben ha ricordato agli ospiti della serata come la situazione romana non sia certo migliore, soprattutto dopo le drammatiche congiunture economiche dettate dalla pandemia.
Attualmente a Roma vi sono 8 mila persone senza fissa dimora e 12 mila vivono in abitazioni occupate; solo 1500, invece, vengono ospitati nei residence popolari a spese del Comune, quando i richiedenti aiuto sono ben 57 mila. Per sottolineare la totale mancanza di visione politica dell’attuale amministrazione, ma anche delle precedenti, è stato riportato il dato di come i residence comunali gravino sui bilanci per ben 28 milioni di euro l’anno, mentre basterebbero solo 2 milioni per ristrutturare abitazioni abbandonate e concederle con un canone di affitto concordato.
Il 19 maggio 2018, il report comunale fotografava, infatti, una situazione già preoccupante: 200 mila persone in emergenza abitativa, il 10% in una situazione drammatica.
Ma dove nasce questa totale disattenzione verso il problema abitativo? La risposta si potrebbe trovare all’interno della concezione di architettura e urbanistica che aleggia negli uffici tecnici preposti. Una visione vecchia, ripiegata su se stessa e ferma agli anni ’70, priva di qualsiasi conoscenza delle innovazioni e dei cambiamenti in atto in tutto il mondo.
Dopo la Seconda guerra mondiale, Roma fu il teatro di una grande speculazione edilizia, ma attenzione, come ha ricordato l’architetto Giovanni Rebecchini, “speculazione” non era assolutamente sinonimo di illegalità, tratteggiava invece una collaborazione tra pubblico e privato, dove al suo interno il privato godeva di maggiore libertà in termini costruttivi e progettuali.
Con questa autonomia, la città crebbe a dismisura, occupò intere aree incolte, nacquero le periferie e si sperimentarono grandi impianti popolari, come Corviale e Vigne Nuove.
Nel corso degli anni, in questi nuovi quartieri non vennero portati a termine la realizzazione di servizi essenziali come i trasporti su gomma e ferro. Il risultato fu quello di creare una politica urbanistica che ruotasse tutta attorno al valore dell’automobile e di conseguenza anche l’economia cittadina cominciò a rapportarsi con questo nuovo asset.
Come in una reazione a catena, il verde pubblico venne divorato per dar vita a strade ad alto scorrimento, corsie preferenziali, tangenziali e molto altro; il commercio si abituò ad una visione della macchina come mezzo prioritario e tutte le politiche pedonali vennero abbandonate.
In questo modo Roma è diventata una delle poche metropoli al mondo in cui non si sperimenta nessun tipo di nuova architettura al di fuori dei centri commerciali.
Per paradosso l’espansione edilizia residenziale continua senza freni con palazzi enormi e asettici, non regolamentati per quanto riguarda il costo di compravendita e di affitto, la gentrificazione del centro storico, e dei quartieri limitrofi, ha poi portato migliaia di persone a spingersi nelle periferie e, in un effetto domino, altri abitanti si allontanano in nuovi quartieri sempre più sprovvisti di mobilità pubblica. La “follia” che si è innescata, dunque, è credere che costruire di più sia il viatico ai problemi abitativi.
Questo fenomeno, in una città legata al concetto di motorizzazione, ha comportato una dispersione enorme di risorse, fagocitate dal mantenimento e dall’edificazione di nuove strade.
Ed ecco il subentrare dell’emergenza: mercato immobiliare fuori controllo, innalzamento dei costi a medio e lungo termine, sfratti, aste, occupazioni, tensioni sociali e un susseguirsi di amministrazioni che non riescono a intervenire se non sulla viabilità.
Alfredo Martini, direttore di “Civiltà di Cantiere” ha chiuso il dibattito della serata su come si potrebbe operare per combattere questo “mostro”. Roma è un grande contenitore che ha al suo interno 15 città, solo il Municipio II vanta una popolazione superiore a quella di Bologna. Serve dunque una nuova stagione di cambiamenti, gli uffici tecnici dovrebbero tornare a collaborare attivamente con il privato, abbandonare visioni urbanistiche vecchie e stantie, seguire i grandi processi di trasformazione delle altre metropoli.
A Barcellona, per esempio, nel valorizzare le periferie sono stati abbandonati i progetti di viabilità motorizzata e sono state costruite 10 grandi piazze pedonali; lo stesso è avvenuto a Madrid dove le pedonalizzazioni stanno incrementando il fatturato dei commercianti. Nella seconda fase della pandemia, la Capitale spagnola ha approvato un progetto per realizzare 20 km di strade pedonali, interdette alle auto dalle ore 8 alle 22. Tutto questo a Roma sembra impossibile da attuare, o quanto meno arduo. Lo dimostra la realizzazione delle piste ciclabili che si scontrano quotidianamente con infrastrutture stradali non adeguate e reticenza dei cittadini a cambiare visione della città.
Il governo ha annunciato che una parte significativa del Recovery Fund verrà investita nella capitale per portare soprattutto a termine la metropolitana C e realizzare la linea D.
Senza ombra di dubbio è un passo significativo di modernizzazione, ma visti i tempi di realizzazione oltre a pianificare metropolitane servirebbe intervenire su altri fronti.
L’importanza della sinergia tra pubblico e privato è stata rilanciata nella serata del festival anche da Domenico Chirico della “Fondazione Charlemagne”, nonché responsabile del progetto “Periferiacapitale”. Un impegno civico, per l’appunto, che dovrebbe guardare oltre gli appuntamenti elettorali.
La“Fondazione Charlemagne”, ad esempio, da anni in città sostiene progetti al fianco dei più deboli, operando anche con altre Ong, in una prospettiva di rigenerazione urbana, sociale ed economica.
Come è stato sottolineato nel dibattito, infatti, Roma non ha un’identità economica, non ha un polo artigianale, né uno industriale, il turismo è in calo e il settore alberghiero è profondamente in crisi. I cittadini si impoveriscono e perdono la propria autonomia, a cominciare dalle abitazioni. La “casa”, dunque, deve essere messa al centro dell’agenda politica del governo. Si devono alleggerire le spese dei romani e aumentare subito il loro potere di acquisto.
Siamo consapevoli che le questioni siano connesse tra di loro e di difficile risoluzione, ma come ha ricordato Don Ben, l’instabilità abitativa scava solchi profondi nella psiche delle persone. A Natale dello scorso anno un bimbo ospitato nella cena della Caritas aveva chiesto di ricevere come dono non una casa, ma una chiave per riuscire a chiudere bene la porta e impedire alle forze dell’ordine di sfrattarlo nuovamente. Ecco, dunque, a cosa è chiamata l’amministrazione romana: a tutelare la dignità e garantire il diritto alla felicità.
Una risposta
Un quarto dei beni immobiliari di Roma appartiene alla chiesa! Vergogna! Scandalo!