Ieri Marcello De Vito è tornato a casa dopo aver trascorso in carcere tre mesi e mezzo. Il giudice gli ha concesso i domiciliari e probabilmente sarà costretto a casa per altri tre mesi, fino cioè alla scadenza del termine per la carcerazione preventiva. Si tratta di una pratica molto discutibile che in uno Stato democratico dovrebbe costituire l’eccezione, mentre in Italia sembra la regola. Si tiene in galera una persona fino a che questa non confessa il proprio reato o almeno fa il nome dei complici.
La legge non lo prevede e anzi stabilisce chiaramente che un soggetto può essere tenuto in carcere prima di una sentenza solo se può inquinare le prove, fuggire o reiterare il reato. Nel caso specifico di De Vito è probabile che nessuna delle tre ipotesi abbia giustificato una carcerazione così lunga, ma l’interpretazione è elastica e chiunque può essere considerato a rischio fuga.
Fatto sta che il presidente 5Stelle dell’Assemblea Capitolina non deve essere stato molto collaborativo con i magistrati tanto che gli arresti proseguono anche se in una forma più lieve. In un mondo ideale, i processi dovrebbero essere brevi ed efficaci, la custodia cautelare dovrebbe essere limitata a casi gravi e non usata come mezzo coercitivo. Fatta questa premessa che a molti (per primi ai 5Stelle) non piacerà, veniamo al risvolto politico di quanto sta accadendo in Campidoglio.
La Sindaca Raggi è assediata sul tema rifiuti. La città fa ancora più schifo del solito e il Movimento comincia a mostrare crepe vistose al suo interno. Il problema sta proprio nel ruolo di Marcello De Vito. Come avrete notato, qualche riga sopra lo abbiamo definito presidente e non ex presidente. In effetti, come anticipammo lo scorso 29 marzo, a soli 9 giorni dall’arresto, De Vito non si sarebbe dimesso. L’unica strada per sostituirlo nella carica era una sfiducia da parte del gruppo consiliare 5Stelle che da solo ha la maggioranza dell’aula. Ma il timore che in caso di assoluzione, De Vito avrebbe chiesto un risarcimento danni ai colleghi per averlo sfiduciato senza motivo, li ha fatti desistere. Fino a due giorni fa!
Giovedì, infatti, Enrico Stefàno – che di De Vito ha preso il posto nella sua qualità di presidente vicario – ha praticamente posto un aut aut ai colleghi grillini. O lo sfiduciate o me ne vado. Ma loro, giustizialisti con i deboli e garantisti con i forti, hanno fatto finta di non sentire. Chi ha invocato la legge, chi ha guardato alla propria tasca in caso di risarcimento danni da concedere a De Vito, chi ha preferito fare un dispetto a un battitore libero come Stefàno che non ha mai preso posizione chiara tra le due correnti forti del Movimento romano: quella che fa capo alla Raggi e quella che ha come riferimento la Lombardi. Stefàno, sebbene si sentisse più affine alla Sindaca, non ha esitato ad essere critico nei suoi confronti in determinate occasioni.
Insomma, il ragazzo (ha compiuto 32 anni pochi giorni fa) dà fastidio perché usa troppo il suo cervello e poco quello di Casaleggio. Così, gli hanno voltato le spalle. A lui non restava altro da fare che presentare una lettera di dimissioni irrevocabili.
Nei corridoi capitolini qualcuno malignava: “L’ha fatto per lo stipendio, perché senza la sfiducia a De Vito, lui guadagna un terzo”. Ma noi non crediamo a queste voci di basso livello, sebbene da consigliere comunale guadagni due mila euro lordi al mese, mentre da presidente in carica ne avrebbe guadagnati 6.345 lordi.
Fatto sta che le dimissioni di Stefàno rappresentano plasticamente la crisi di uomini che l’amministrazione Raggi ha incontrato in questi anni. Tre consigli di amministrazione per Ama in tre anni. Caos pure in Acea dopo l’arresto del “facilitatore 5Stelle” Lanzalone. E poi Atac, i mille assessori che se ne sono andati, la poltrona sui rifiuti ancora scoperta. L’elenco potrebbe essere lungo e se pure un fedelissimo come Stefàno sbatte la porta, vuol dire che le cose stanno andando davvero male.