Cosa avrebbe scritto Pier Paolo Pasolini sulla morte di George Floyd? La mancanza della sua penna al vetriolo si è sentita ancor di più dopo il caso dell’uomo di colore picchiato e ucciso dalla Polizia negli Usa. Le sue riflessioni avrebbero potuto indicare una strada da seguire, o meglio avrebbero potuto generare degli anticorpi in grado di isolare il sano malcontento sociale delle comunità nere da un movimento pseudo intellettuale che ha invece corrotto il messaggio innescato dalla morte di Floyd.
Da allora si sono succeduti movimenti antirazzisti e anticolonialisti che sull’onda della rabbia hanno vandalizzato statue di politici, scrittori, artisti ed esploratori. Personaggi illustri accusati di essere razzisti, schiavisti, stupratori, come nel caso della statua di Indro Montanelli imbrattata a Milano. Agli inizi si pensava che il tutto si sarebbe chiuso nel giro di poche settimane, ma a distanza di mesi il movimento ha innescato una pericolosa “rivoluzione culturale” sposata da politici e intellettuali.
La scorsa estate, il sindaco di Londra ha avviato una revisione di tutti i monumenti in città per decidere quelli che non corrispondono più a valori di eguaglianza, fratellanza e inclusione.
In America, nel mese di dicembre 2020, ha tenuto banco un dibattito attorno alla figura dell’architetto Philip Johnson accusato di essere un suprematista bianco, visti i suoi trascorsi, negli anni di formazione, vicino al partito nazista tedesco. Johnson di fatti non ha mai rinnegato del tutto le sue convinzioni giovanili anche se nel tempo aveva cercato un percorso di espiazione delle proprie colpe.
È nato così il “Johnson Study Group”, che dopo aver studiato il caso dell’architetto ha inviato una lettera formale al Museum of Modern Art di New York, per chiedere di ritirare il nome dell’architetto “da qualunque istituzione culturale o educativa che intende servire un ampio pubblico”. La lettera, corredata da 38 firme di grandi architetti e designer e supportata da sei dei dieci partecipanti alla prossima mostra del MoMA, specifica che non si vuole arrivare all’oblio delle opere di Johnson, riconosciute in tutto il mondo come vere e proprie opere d’arte, ma limitarne ogni riconoscimento istituzionale.
Quello che sta avvenendo costituisce un precedente pericoloso che affonda le sue radici in un dibattito di lungo corso, percepito in America di primaria importanza.
Nell’ottobre del 2017 su “The New Yorker” comparve un articolo della storica Ruth Ben-Ghiat in cui, fin dal titolo, Perché esistono ancora così tanti monumenti fascisti in Italia?, ci si chiedeva il perché da noi non fosse nato un movimento di revisione culturale (come, per esempio, avvenne nella Germania del dopo guerra) attorno a tutta una serie di simboli e architetture fasciste. L’articolo fece grande scalpore tanto da ricevere le critiche firmate da importanti giornalisti e intellettuali, da Giordano Bruno Guerri a Fulvio Irace e molti altri, trovando invece un appoggio in Roberto Saviano il quale difese la linea sociologica della storica che oltre all’architettura fascista criticava l’immobilità della politica di fronte la riorganizzazione di movimenti estremisti proprio all’ombra di alcuni monumenti, si pensi ai raduni dei fascisti a Predappio.
In realtà in Italia si è cercato, seppur goffamente, di instaurare un movimento di revisione. Laura Boldrini già nel 2015 lanciò un’iniziativa per rimuovere l’iscrizione del nome di Mussolini dall’obelisco del Foro Italico, una cosa assolutamente senza senso che si poneva in controtendenza rispetto a tutta una storia intellettuale che segnò il dibattito pubblico degli anni ’60 e ’70.
Nel 1972, lo storico Cesare de Seta mise in discussione il termine di “Architettura fascista”, riabilitando tutta una storia urbana di giovani architetti che durante il ventennio sognavano le “città ideali”, sull’onda di partiti che garantivano loro la possibilità di progettare senza limiti spazi che fino ad all’ora erano impossibili anche solo immaginare. Lo stesso Le Corbusier, maestro e ispiratore di Philip Johnson, venne accusato di fascismo per la sua vicinanza alle idee futuriste e razionaliste (oggi diremmo minimaliste per sentirci più radical chic).
Arriviamo così a Pier Paolo Pasolini. Il 24 giugno del 1974, comparve sul Corriere della Sera un suo articolo dal titolo “Il Potere senza volto” (inserito poi nella raccolta Scritti corsari e intitolato Il vero fascismo e quindi il vero antifascimo). Pasolini principiava il suo contributo con una domanda: “Che cos’è la cultura di una nazione?”
Cercando di dare una risposta espose tutta una serie di motivazioni per cui l’antifascismo viene inteso, non come il movimento partigiano, ma come un nuovo potere sociale atto a cancellare tutto quello che non rientri nelle logiche del “Potere”.
Il poeta argomentava di come, secondo un insano sentimento di libertà, dettato inconsciamente da una degradata idea di politica, si possa arrivare a cancellare la storia culturale di un paese fatta di architettura, letteratura, lingua, accenti, costumi, simboli e molto altro. Un’omologazione culturale, “repressiva” ottenuta grazie all’imposizione della “joie de vivre”.
Screditare talmente una classe dirigente e una società davanti agli occhi di un uomo, da fargli perdere il senso dell’opportunità e dei limiti, gettandolo in un vero e proprio stato di «anomia».
Questo stato di pigrizia, denunciato da Pasolini, è proprio quello che si sta cercando di ottenere. Nel chiudere il suo articolo invitava tutti a non compiere l’errore che venne fatto con i fascisti, ovvero quello di non ascoltare le loro richieste, le loro posizioni, solo perché la storia li ha relegati nel cesto del male.
I simboli, i manufatti, che siano essi letterari o architettonici, non sono solo segni di cultura e di storia, ma rappresentano nello stesso tempo sani anticorpi per la società, alimentano dibattito e idee intorno a questioni spinose e difficili, proprio come i temi dello schiavismo, del razzismo e del fascismo.
Far cadere statue, oscurare profili social, rimuovere nomi da palazzi, crea un pericoloso oblio e nello stesso tempo mostra la debolezza di una società nel combattere le storture della storia, mostra la sua incapacità democratica di creare dialogo (si pensi alle cinque persone decedute nell’assalto a Capitol Hill di cui non si è minimamente discusso solo perché moralmente colpevoli, oltre che materialmente, di seguire le idee di Donald Trump). Avviene così quella metamorfosi, sintetizzata da Umberto Eco, in cui è proprio dalla vita del Santo che nasce l’anticristo, dal nulla nasce il mito.
Se in Italia si innescasse un vero movimento di revisione, dovremmo cancellare tutta la storia di Roma, dal Colosseo, in cui venivano torturati e uccisi i cristiani, al Vaticano colpevole di aver mandato a morte migliaia di persone. L’Eur non ospiterebbe nessuna fiera, anzi un’intera città dovrebbe essere rasa al suolo, con la sola colpa di essere stata la capitale del Fascismo prima ancora che di un Impero. I mosaici della Stazione Ostiense andrebbero distrutti e così molti altri monumenti, il Palazzo della Civiltà, massimo simbolo di razionalismo, potrebbe essere preso di mira.
Consideriamo la possibilità che anche in Italia possa avvenire un revisionismo di questo tipo (si veda infatti il tentativo della Boldrini a Roma) perché spesso, soprattutto i partiti, si muovono per imitazione di ciò che avviene al di fuori dei confini nazionali rinunciando alle peculiarità della propria società.
Così mentre si discute su degli obelischi, o su delle statue, le istituzioni, proprio per quell’anomia delineata da Pasolini, ignorano, per esempio a Roma, quegli imbarazzanti raduni fascisti nella sede di Acca Larentia (l’ultimo avvenuto una settimana fa), tra i quartieri di Colli Albani e Furio Camillo. Nessun dialogo, nessuna vera contestazione, nessuna vera presa di distanza, il tutto viene relegato nel nulla, come se fosse una rimpatriata di amici, anzi di disadattati. I residenti, in questo modo, non capiscono fino in fondo proprio quel senso di opportunità e di limite.
Quindi se è vero che gli Stati Uniti non hanno avuto Pasolini è anche vero che da noi non viene letto e non viene capito fino in fondo, l’attenzione sociale che ribadiva Ruth Ben-Ghiat è fondamentale per rafforzare gli anticorpi, che però devono partire proprio dai simboli e dalle storture della nostra storia.
Il finale di Pasolini sintetizza profeticamente tutto quello che stiamo vivendo:
Il nuovo fascismo [inteso come nuovo potere di controllo delle masse] non distingue: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.
Era il 1974, un anno prima della sua morte, chissà oggi come avrebbe commentato i “Proud Boys” americani e i fautori del “Black Lives Matter”.
Una risposta
Coloro che propugnano un “revisionismo architettonico” (via tutto ciò che riguarda fascismo, razzismo, colonialismo, ecc.) sono, probabilmente, gli stessi che anni fa s’indignarono contro l’abbattimento delle statue di Buddha a Bamiyan da parte dei Talebani, la distruzione di meravigliose opere d’arte da parte dell’Isis in Siria ed Iraq. E chissà quanto altro nel corso dei secoli fu distrutto da popoli che cercarono di cancellare una precedente civiltà e storia di altri popoli…