Siamo stati e restiamo molto critici nei confronti del Pd romano. Lo sfascio della città è imputabile a tante cause non solo politiche, ma se dobbiamo puntare il dito sulla politica dell’ultimo ventennio le principali responsabilità sono in capo alla disastrosa giunta Alemanno e alla non classificabile giunta Raggi. In tutto ciò, però, la colpa del Pd è ancora più grave.
Essendo l’unico partito ad avere una vocazione riformista, a ospitare tra le sue fila alcune figure competenti e ad avere un minimo di visione futura della città, è dal Pd che ci si sarebbe aspettato un colpo di reni. Uno scatto dall’opposizione che avrebbe dovuto mettere la Raggi di fronte le sue inefficienze e soprattutto le sue miopie. Invece, al di là di alcune schermaglie di ordinanza, i dem romani non hanno mai svolto il ruolo di cane da guardia della maggioranza, associandosi più volte alle scelte scellerate dei 5stelle.
Fatta questa premessa che evidenzia la nostra delusione per ciò che si poteva fare e non si è fatto, dobbiamo però allo stesso tempo riconoscere che in quel partito sono presenti figure di primo piano, che conoscono la città e la politica. Il nome di Walter Tocci è il primo che viene alla mente quando si pensa ad un possibile buon governo a trazione centro sinistra. Ma ve ne sono altri come Marta Leonori, da poco nominata capogruppo in Regione e tanti che lavorano senza luci dei riflettori portando un contributo serio alla politica.
Perché, come scrisse Fabrizio Barca nel suo rapporto del 2015, nel partito ci sono almeno cinque anime: due correnti ex Ds, due ex Margherita e un “pulviscolo di grumi di consenso personale”. Gruppi che si detestano e pur di vedere sconfitto il compagno preferiscono distruggere se stessi. La parabola di Ignazio Marino ne è la prova: c’è nel partito romano una componente fratricida. Tanto odio mette in ombra quanto c’è di buono.
Sulle pagine del Messaggero di ieri c’era una bella intervista a Roberto Morassut, criticato assessore all’Urbanistica delle giunte Veltroni ma politico di razza che si destreggia nella realtà romana come pochi. Vogliamo riportare alcune sue riflessioni relative al Recovery Plan romano e al futuro delle infrastrutture in città, perché ci sembra abbia fotografato con lucidità la situazione attuale.
Il quotidiano parte col domandare le motivazioni per cui a Roma arriverà meno della metà delle risorse richieste per il piano di rinascita post Covid e la risposta è molto netta: “Le proposte presentate dalla giunta Raggi erano disordinate a affastellate. Non è stata fatta una selezione accurata e basata sui criteri del Piano, il primo dei quali è il tempo (…). Non puoi rovesciare sul tavolo dei titoli che non sono progetti e poi lamentarti“.
Come anche noi avevamo scritto pochi giorni fa e mesi orsono, il peccato originale della Raggi che mai le si potrà perdonare, è non aver progettato nulla in questi cinque anni, tranne due funivie e qualche pista ciclabile. I cassetti restano vuoti e l’occasione dei soldi Covid non potrà essere sfruttata soprattutto per questo motivo.
Altra questione sollevata da Morassut riguarda i fondi non spesi: il Comune tiene in cassa 800 milioni frutto della “paura della firma”. “Basta con i piagnistei e la paura di fare cose – dice l’esponente Pd – adesso si attrezzino gli uffici e si spendano le risorse“.
Il paragone in tema di infrastrutture con le altre capitali è impietoso. Morassut spiega che “il Prg prevede 42 km di nuove metropolitane, 180 corridoi di riserva e 400 km di ferrovie urbane e regionali. Dal 2008 non si è fatto nulla, né con Alemanno né con la Raggi. Si è perso tempo con le funivie e non si è lavorato sulle reti“.
Ci sono altri aspetti interessanti dell’intervista come quelli sul debito del Comune di Roma che viene definito “mal calcolato nel 2009. Le scelte di allora hanno ridotto gli investimenti e aumentato la pressione fiscale su imprese e famiglie. Di quei 500 milioni che si gettano nella fornace del debito fasullo, non un euro va agli investimenti e ai servizi“. E su questo c’è da riconoscere che la Raggi ha provato a fare una timida battaglia ma non è stata supportata neanche dal suo Movimento a livello nazionale, forse perché il tema è troppo complesso e i portavoce sono troppo impreparati per comprenderlo.
Insomma, il vice capogruppo del Pd alla Camera, Roma la conosce bene e alcune ricette importanti le avrebbe pure. Peccato che il suo partito non sia in grado di esprimere a una manciata di settimane dal voto neanche un nome che abbia le competenze per fare il Sindaco ad alto livello. Il prof. Caudo e Carlo Calenda, probabilmente i due esponenti del centro sinistra dalle maggiori capacità, non vengono neanche presi in considerazione mentre il partito rimbalza tra nomi improbabili (Madia, Gualtieri) e primarie che si allontanano nel tempo.
La città ha bisogno di competenze, di politici che sappiano riconoscere al volo le criticità della macchina amministrativa e che sappiano progettare il futuro. Veniamo da cinque anni di vuoto: alla vigilia dello scioglimento del consiglio comunale, quando i Sindaci tirano le somme del loro mandato, continuiamo ad assistere a post entusiasti per l’asfaltatura di una strada o la riparazione dei lampioni di una piazza.
E’ chiaro che la lista sconclusionata stilata dalla Raggi per le opere del Recovery romano avrebbe fatto ridere la Commissione europea e non sarebbe mai stata approvata. Ma il Pd avrebbe dovuto predisporre una giunta ombra, avrebbe dovuto tirare fuori le idee e i progetti di cui ha capacità. Invece ha preferito tacere, agire in maniera consociativa e non fare battaglie vere in piazza e nei media. Ha taciuto quando si doveva gridare, come su Atac, sui rifiuti, sulla metro C. E non basta adesso dare una bella intervista ad un quotidiano per mostrare che si conosce la città.