Dunque la sanità del Lazio non è l’eccellenza (che parola abusata) che Alessio D’Amato e Nicola Zingaretti facevano credere. L’ex assessore alla salute, candidato alla presidenza della Regione, ha basato la sua campagna elettorale sul presunto risanamento del sistema sanitario regionale ma soprattutto sulla performance vaccinale contro il Covid. Già dalla metà del 2021, Zingaretti e D’Amato sembravano un disco rotto: in ogni occasioni non mancavano di ripetere quanto fossero stati bravi per aver fatto vaccinare tanti cittadini del Lazio. Pure quando era fuori contesto e fuori luogo.
Lo facemmo notare già l’8 luglio del 2021 quando Zingaretti, durante la presentazione alla Camera di Commercio del progetto sul nuovo Politecnico, parlò praticamente solo di vaccini. E allo stesso modo si comportava D’Amato quasi ossessionato dalle punture. C’è una tecnica comunicativa molto nota tra i portavoce dei politici che consiste proprio nello sviare dai temi delicati. “Sei in in difficoltà sulla sanità..? Allora parla solo di vaccini”, sarà stato il consiglio fornito dagli esperti di comunicazione. Ma i nodi vengono sempre al pettine e ora che D’Amato e Zingaretti non ci sono più, il coperchio sul caos ospedali sta saltando.
Perfino la Cgil non ha potuto esimersi da lanciare un allarme sulla sanità laziale. Il sindacato ha deciso di scendere in piazza e di convocare una manifestazione per il prossimo 24 giugno in difesa del diritto alla salute. Ma fino allo scorso anno, né i media, né i sindacati osavano proferire parola. Diarioromano, tra i pochi, provò a scrivere che la “narrazione” (anche questa è parola abusata) del Lazio come regione modello era una grande bufala. Altro che vaccini per il Covid. Qui c’è da fornire le prestazioni essenziali che sono ben lontane dall’essere garantite.
Quasi cinque visite su dieci, avvengono fuori dai tempi previsti. Le Asl capitoline sono le peggiori con la Roma 4 che riesce a effettuare solo il 43% delle visite entro il limite previsto dalla Regione stessa. Anche per tutte le altre i tempi di attesa sono lunghissimi con le ovvie conseguenze sullo sviluppo delle malattie. I dati sono frutto di un dossier pubblicato dalla Cgil nei giorni scorsi e fanno il paio con quelli di Cittadinanzattiva Lazio che ha condotto un monitoraggio su tutte la Asl regionali.
Secondo la Regione, una prestazione accompagnata dalla lettera U (Urgente) deve essere eseguita entro tre giorni. Dalla lettera B (Breve), entro 10 giorni. D (Differibile), entro 30 giorni. P (Programmata), entro 120. L’indagine di Cittadinanzattiva mostra che la non osservanza dei tempi è la regola.
Il paziente, nel 20% dei casi, rinuncia alla prestazione! Le lentezze e le farraginosità burocratiche lo fanno desistere.
Tra coloro che invece riescono ad ottenere la prestazione, il 41,4% l’ha fatta nel pubblico, il 20% in Intramoenia, l’8,6 in Extramoenia e il 5,7 è stato costretto ad andare fuori regione. Tra coloro che hanno fatto la prestazione in Intramoenia, ben il 93,1% avrebbe preferito il pubblico se i tempi fossero stati più brevi.
Che sia difficile governare un sistema sanitario come quello laziale, gravato dai debiti, è cosa nota. E che Zingaretti e D’Amato non potevano risolvere ogni problema è ovvio. Ma avrebbero dovuto avere il buon gusto di ammettere che dopo quasi 10 anni di loro gestione le criticità erano ancora presenti, senza rimbambire la gente di chiacchiere sul Covid.
Nel 2013, un rapporto di Anaao Assomed metteva per iscritto una serie di problemi da affrontare e tra questi citava proprio le liste d’attesa, l’accreditamento delle strutture private e la questione universitaria. Su quest’ultimo punto è necessario fare un accenno perché qui sta uno dei gravi errori di programmazione degli ultimi anni che non sembra si voglia modificare.
“Abbiamo lasciato decadere gli ospedali fino a renderli pericolosi, abbiamo allocato risorse lì dove non era necessario, né utile. Ci siamo, al contrario, gloriati come fiore all’occhiello di una Università in realtà improduttiva, fonte enorme di spesa per le casse regionali, abbiamo lasciato che si dilatasse in maniera abnorme fino a tollerare nella sola città di Roma ben 5 Policlinici universitari, al di fuori di qualsiasi programmazione sanitaria, al solo scopo di creare cattedre per i docenti e orientare voti elettorali anche compiacendo poteri forti“. Così scriveva l’associazione dei medici dirigenti e probabilmente questa è la fotografia più nitida di quello che si è fatto. Si sono distribuiti posti di potere e sottopotere creando sacche di totale inefficienza e carrozzoni universitari con pochissime professionalità, trascurando gli ospedali di frontiera costretti a farsi carico di un peso insostenibile.
Se a questo si aggiunge la carenza di medici emersa in questi ultimi anni, ecco la tempesta perfetta: pronto soccorso usati come presidi territoriali; liste d’attesa ormai insostenibili; posti letto in costante diminuzione.
Ora la palla è passata a Francesco Rocca che la sanità la conosce bene e che ha tenuto per sé la delega. “Ci aspettano scelte dolorose per evitare il collasso”, dice il presidente della Regione. Non sappiamo se riuscirà a incidere i problemi e se ha la ricetta giusta, ma almeno un merito gli va riconosciuto: per ora ha detto la verità sulle condizioni dei nostro sistema sanitario. Al collasso e niente affatto un’eccellenza.
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