C’era una volta la salsamenteria, la piccola ferramenta, la pelletteria. Esercizi che stanno scomparendo nelle strade dei quartieri romani schiacciati dalla concorrenza delle grandi distribuzioni. Che se ne senta o meno la mancanza, il problema non è tanto il commercio che non c’è più ma quello che sta prendendo il suo posto a partire dalle sale slot. Un tipo di negozio che non porta solo insegne cafone e luccicanti ma disagio sociale, famiglie rovinate, volti allucinati. L’ultimo rapporto Eurodap, l’Associazione Europea Attacchi di Panico, certifica che per un italiano su due “il gioco d’azzardo è diventato un’esperienza emotiva insostituibile, destinata a trasformarsi in una forma di compulsività tale da provocare nei giocatori pesanti ripercussioni”. Non è certo il proibizionismo a risolvere una patologia, anzi in certi casi vietare rende la ricerca della trasgressione ancora più stimolante.
Roma – che quando si parla di degrado e disagio non si fa mancare nulla – ospita oltre 350 sale gioco e 55mila slot machine, il 13% di quelle presenti sull’intero territorio nazionale. L’associazione Libera ha dimostrato, dati alla mano, che questi locali troppe volte sono il sottobosco di una illegalità diversa. Bande di usurai hanno tutto l’interesse ad avviare nuove sale gioco, consapevoli che il loro guadagno arriverà da due fonti alternative: il giocatore che perderà molto denaro riempiendo le casse della sala chiederà un piccolo aiuto allo strozzino che guarda caso si troverà a passare proprio da lì quel giorno.
Un fenomeno nazionale, tanto che l’Italia si pone al quarto posto assoluto nel mondo per capitali persi nel gioco (17,5 miliardi l’anno). Ma anche un problema molto romano dato che diversi studi hanno dimostrato la tendenza a scommettere di più laddove sono più numerose le sale slot. Insomma non è il mercato che richiede più sale, ma sono queste a generare una domanda indotta.
I quartieri semicentrali sono quelli più affollati dalle attività di gambling con l’Esquilino ai primi posti proprio perché il più vicino al centro storico dove il Campidoglio le ha espressamente vietate. Ma anche Prenestino, Marconi, Monteverde, Nomentano contano migliaia di macchinette mangiasoldi. Caso a parte sono la via Tiburtina e la via Cassia diventate delle Las Vegas de noantri che attirano scommettitori da tutta la regione. Un pendolarismo poco invidiabile provocato anche dalla crisi che ha svuotato capannoni e magazzini industriali rendendoli facile preda di imprenditori non proprio specchiati. Così laddove prima si produceva lavoro oggi si offre il brivido del gioco. E le strade si riempiono di attività collaterali, come la prostituzione o il piccolo spaccio.
La presidente del Primo Municipio, Alfonsi, un anno fa se la prese con la Questura: noi cerchiamo di porre un freno alla nascita di nuove attività intorno la stazione Termini ma loro concedono i nulla osta. Molti invocano una normativa nazionale che metta limiti alla capacità di spesa di ciascun giocatore. Altri propongono un tetto al numero di slot in ogni città. Ma sono tutte proposte che convincono poco, come quella del consigliere capitolino Nanni il quale vorrebbe vietare di fatto la presenza delle sale in città. Il risultato sarebbe la nascita di bische clandestine e riporterebbe il mercato in mano alla criminalità.
Come accade per ogni dipendenza la soluzione non sta nei divieti ma nell’informazione. Occorrerebbe avviare una campagna di comunicazione sui media e nelle scuole. I fondi dovrebbero essere prelevati da una tassa di scopo a carico delle imprese di gioco. E poi vietare gli spot che illudono al cambio di vita con una semplice scommessa da 2 euro. Lavarsi la coscienza, obbligando le pubblicità televisive ad aggiungere la frase “gioca il giusto” è troppo semplice.