Riproponiamo un articolo che Anton Giulio Onofri ha pubblicato sul sito della Galleria Nazionale, nell’ambito del progetto “Piazze d’Italia”, corredato da magnifiche foto scattate in questi giorni di quarantena. Con una storia da leggere
di Anton Giulio Onofri
Roma deserta non è un’immagine inedita: tanto cinema italiano degli anni ’60 ce l’ha mostrata nel pieno delle vacanze d’agosto, assolata e con tutte le saracinesche abbassate, ‘senza nessuno in giro’. Stavolta, però, a inverno terminato da appena due settimane, l’effetto è diverso. L’emergenza per il virus ha costretto tutti i terrestri a chiudersi in casa; passeggiare da solo per le vie del centro (mai, anzi, mi sono sentito tanto solo e clandestino nella mia città), nelle strade e nelle piazze presidiate dalle forze dell’ordine, mi ha ricordato altri film, tutt’altro che vacanzieri: come per Charlton Heston in Occhi bianchi sul pianeta Terra, o Will Smith in Io sono Leggenda, la sensazione è stata davvero quella di essere un Last Man on Earth, se solo non avessi dovuto aspettare fino a quarantacinque minuti, per fotografare immacolata la scalinata di Trinità dei Monti, che una signora col cagnolino, impegnata in un’interminabile conversazione al cellulare, la salisse e la scendesse con tutto il suo comodo.
Roma mi si è svelata in tutta la sua bellezza, accordandomi il privilegio di vagare, unico visitatore, nelle sale e nei corridoi di un museo chiuso al pubblico. Ma una città non è un museo. Una città vive della gente che ne affolla gli spazi metropolitani. Svuotata di chi la popola, una città smette di essere una città, e diventa qualcos’altro. Non so di Milano o di Napoli, ma Roma, eternamente ammirata, dipinta, fotografata, mi ha in questi giorni mostrato il suo volto spaesato di popolana proverbialmente cinica e imperturbabile, dispiaciuta che nessuno la guardasse più. Per la prima volta in vita mia ho avvertito un suo cedimento emotivo inedito, causato da un allarme più sordo, forse, dei tanti che per secoli hanno annunciato crolli, decadenza, macerie e mille altre ferite inguaribili, ma che stavolta è riuscito a scalfirne l’umore in profondità. La sua reazione è stata quella di sfoderare tutta la sua bellezza alla luce del sole stordito e glaciale di questa strana primavera, per dimostrare a se stessa di bastarsi da sola, e di poter fare a meno di tutto il resto, recuperando nel silenzio lisergico di vicoli, stradine e piazzette, la coscienza della propria statura di città non solo antica, ma eterna.
In conclusione, voglio raccontare di quando sabato pomeriggio mi sono arrampicato sul Pincio per fotografare Piazza del Popolo dall’alto. Il parco, dove nei soleggiati sabati di primavera accorrono da ogni parte della città famiglie con bambini e coppiette di fidanzati, era vuoto e silente come il giardino misterioso di un sultano arabo.
Affacciato dal parapetto a picco sulla piazza stavo impostando esposizione e diaframma della macchina fotografica per gestire il violento controluce, quando alle mie spalle avverto arrivare in automobile una pattuglia di carabinieri. Mi avvicino per spiegare che sto realizzando un servizio fotografico su Roma e le sue piazze per la Galleria Nazionale. Fornisco, come richiesto, documento d’identità e le autorizzazioni del caso. Appurato che tutto fosse in regola, i due carabinieri, un uomo e una donna, vanno per allontanarsi, quando la donna prega il collega di aspettare un attimo, e scendendo dall’auto mi chiede che cosa volessi fotografare da quel punto specifico.
La accompagno verso la balaustra, e ci affacciamo insieme su Piazza del Popolo, in quel momento inondata di luce: l’obelisco, perfettamente incuneato in verticale nel rettilineo di Via Cola di Rienzo, proietta la sua lunga ombra sui sampietrini argentati dai riflessi del sole. ‘Sembrano le due lancette di un orologio’, dico alla carabiniera, che visibilmente colpita dal panorama mi risponde: ‘E segnano pure l’ora esatta!’ Sulla piazza, rotonda come il quadrante di un cronografo, l’obelisco e la sua ombra sembrano infatti segnare le cinque del pomeriggio. ‘Vieni a vedere pure tu! È bellissimo!’ grida la carabiniera al collega, che sorridendo scende dalla vettura e ci raggiunge per affacciarsi anche lui sul tramonto. Restiamo lì, zitti tutti e tre, per qualche secondo, finché il carabiniere dice ‘Non l’avevo mai vista da qui, Roma’. ‘Nemmeno io’ aggiunge lei.
Sotto i nostri occhi, dalle rampe di Valadier e al di là del Tevere, fino alla cupola di San Pietro, Roma, in controluce, risplende e si prende la sua rivincita.
Anton Giulio Onofri è regista, scrittore, autore televisivo. Attualmente collabora con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Il suo ultimo libro, La prima estate e altri racconti, è pubblicato con Corrimano Edizioni.