Negli ultimi giorni hanno indignato le immagini che vedevano dipendenti Ama intenti a smembrare, con “coltellacci”, cadaveri nel cimitero Flaminio, per arrotondare il proprio stipendio.
Le indagini condotte dagli inquirenti hanno svelato un sistema consolidato dove le agenzie funebri, d’accordo con alcuni dipendenti della partecipata comunale, garantivano ai parenti delle salme lo smaltimento obbligatorio delle ossa, dopo i 30 anni di tumulazione, a prezzi abbordabili e tempi molto più rapidi della norma.
Questa indagine ha fatto poi da specchio ad una seconda inchiesta che ha incastrato sempre i servizi delle onoranze funebri che al posto di cremare i defunti li seppellivano in fosse comuni consegnando ai parenti urne cinerarie contenenti terra e sassi. È stato qualcosa di raccapricciante quello che è accaduto, dove i magistrati non escludono che questo sistema sia in piedi da anni e che quindi le salme coinvolte siano molte di più rispetto a quelle accertate.
Dissacrare i corpi dei defunti, violarne il loro ultimo riposo, non è solo un reato penale, ma svela un imbarbarimento della società pronta a commettere gesti deprecabili pur di vedere piccole cifre sommarsi al proprio stipendio.
Non ci addentreremo nella questione più del dovuto, anche perché parte dell’indagine è ancora in corso, ma prendiamo spunto da questa vicenda di cronaca per affrontare una questione che attanaglia da anni molte realtà cittadine, europee e non solo: parliamo del delicato rapporto tra spazio urbano e spazio cimiteriale. Un rapporto difficile che ha ingigantito a dismisura la burocrazia funeraria permettendo la nascita di questi comportamenti macabri, al limite del malavitoso.
Infatti, la sepoltura delle salme da sempre arrovella urbanisti e architetti che devono risolvere la questione del sovraffollamento e del dove seppellire i propri concittadini. Ogni anno in Italia muoiono in media 600 mila persone, lo spazio a disposizione è sempre meno e in alcuni comuni non è possibile seppellire con il risultato che i parenti del defunto sono costretti a rivolgersi a comuni limitrofi con la conseguenza di incorrere in una burocrazia sempre più farraginosa.
Lo scorso anno il Regno Unito aveva comunicato che in cinque anni sarà terminato tutto il suolo disponibile e le sepolture saranno difficili da concedere. È nato così un tavolo di incontro per cercare di risolvere il problema.
Il Covid ovviamente ha impresso una svolta anche in questo dibattito. I tecnici ribadiscono che bisogna cambiare soprattutto la cultura funeraria, prediligendo la cremazione (scelta che coinvolge ancora una parte della popolazione, anche se in aumento) o l’inumazione musulmana che prevede solo l’uso di lenzuoli di cotone, per accelerare i processi di decomposizione e limitare l’inquinamento del suolo dovuto al legno e allo zinco della cassa.
Altri invece vedono nel problema della sepoltura un’occasione per cambiare il volto delle città. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi dei “corridoi verdi”, ovvero quello di creare dei sentieri di sepolture nei parchi pubblici e lungo i marciapiedi, oppure creare “cuscinetti verdi” nelle zone con un’alta concentrazione di cemento, o ancora lungo le linee ferroviarie.
Dagli Stati Uniti, invece, è arrivata una proposta al dir poco accattivante che aprirebbe la strada ad un nuovo rapporto con il concetto di “morte” e rivoluzionerebbe gli spazi urbani in modo drastico, parliamo della tecnica dell’ecosostenibilità della morte, ovvero quella di compostare le salme in grandi recipienti di acciaio, insieme a paglia, trucioli di legno e terreno, processo identico al compost agricolo, al cui interno viene controllato il rapporto tra carbonio, azoto, ossigeno e umidità, con il risultato di ottenere, attraverso il lavoro di microfobi termofoli, del concime per piantare nuovi alberi, e creare boschi in quelle città che hanno perso il loro verde pubblico. Un processo ultrarapido, che consente lo smaltimento della salma in soli 30 giorni.
Questa soluzione non si è insabbiata tra le dune delle tante ipotesi messe in campo, ma è diventata un vero e proprio progetto che prenderà corpo negli Stati Uniti nella primavera del 2021. La società, Recompose, che ha brevettato il sistema di compostaggio, di fatto offre un’alternativa valida alla sepoltura e alla cremazione, soprattutto in un momento così difficile dettato dalla pandemia.
La prima sede dovrebbe aprire a Seattle, disegnata dallo studio di architettura Olson Kunding, e lo staff del processo di riduzione organica naturale sarà guidato da Katrina Spade.
Si stima che ogni anno si potrebbero piantare 500 mila alberi, creando nuovi polmoni per il pianeta e per gli spazi urbani sempre più inquinati. Lo Stato di Washington si è mostrato subito collaborativo in questa prospettiva, riconoscendo la riduzione organica come valida alternativa inserendola in un disegno di legge. Il costo a carico dei parenti si aggirerebbe attorno ai cinque mila dollari, cifra al di sotto di molti tariffari proposti dalle onoranze funebri per una semplice tumulazione.
La Capitale da anni soffre la mancanza di nuovi spazi cimiteriali, e quelli che sono allo stremo sono abbandonati all’incuria e alla sporcizia, per non parlare delle condizioni del cimitero monumentale del Verano. Perché non aprire un tavolo di dibattito su queste nuove tecniche?
La questione, quindi, è quanto mai attuale e non più procrastinabile, le amministrazioni devono fare i conti con la realtà del sovraffollamento dei cimiteri per evitare che si ripetano scene indegne come successo a Roma, e intanto intervenire sulla burocrazia, vigilare attentamente sulle onoranze funebri e sugli addetti comunali. Perché tutelare la dignità del defunto è un dovere delle istituzioni, anche dopo 30 anni. E pretendere il rispetto della morte è un diritto del cittadino che non può tirarsi indietro dal dibattito, o nascondere la testa sotto la sabbia. Dunque, in attesa che qualcosa si smuova, anche sotto il punto di vista legislativo, non ci resta che seguire il consiglio di Massimo Troisi e appuntarci sull’agenda l’ammonimento che gli rivolse il monaco: “Ricordati che devi morire”, sperando, forse, che un giorno, anche in Italia, dal nostro albero possa nascere un bellissimo fiore.