La rinascita del paese passa inevitabilmente dalla lotta alla povertà, dalla strategia che metteremo in atto per riconoscere e realizzare i diritti dei cittadini. Sarà una sfida importante che coinvolgerà tutte le forze politiche, da quelle governative a quelle locali.
Con il Recovery Fund alle porte, occorrerà un piano di intervento che non si limiti solo a contrastare e curare le fragilità ma che sappia creare nuove opportunità per lenire le disuguaglianze sociali.
Nel 2018 Luigi Di Maio festeggiò l’approvazione del reddito di cittadinanza con l’imbarazzante frase “abbiamo abolito la povertà”, come se infondere liquidità nelle tasche degli italiani fosse la panacea a tutte le discrepanze sociali del nostro paese. Se l’attuale Ministro degli Esteri avesse allora solamente sfogliato alcuni studi degli economisti Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer, premi Nobel per l’economia nel 2019, si sarebbe reso conto che affermare di voler abolire la povertà con dei sussidi non solo è un’assurdità ma rischia di aggravare proprio lo stato economico delle persone in difficoltà.
Infatti, questi studiosi, a cui il Nobel è stato riconosciuto per l’approccio al contrasto della povertà globale, hanno dimostrato come per decenni le politiche di sussidio per miliardi e miliardi di dollari, destinati alle popolazioni povere, fosse una strategia fallimentare in quanto il germe che alimenta la povertà è da rintracciare nell’ignoranza, nella scarsa educazione economica e nell’inerzia delle persone.
Se un indigente, all’improvviso, vede il suo reddito aumentare, senza nessuna politica di controllo e senza nessuna capacità di gestione, è portato a spendere i suoi soldi per la ricerca di un cibo di alta qualità, per l’acquisto di beni secondari e inutili, ma non investirà neanche un centesimo nel futuro suo e della sua famiglia, e quando nel giro di qualche anno lo Stato esaurirà le proprie risorse le famiglie povere si ritroveranno ancora più povere.
Dunque, se da una parte il microcredito può ossigenare le casse, nel breve periodo, dall’altra servirebbe una programmazione lungimirante di contrasto all’ignoranza e all’inerzia. Questo vuol dire investire enormi capitali nella formazione permanente, che inevitabilmente passa attraverso l’istruzione scolastica, a partire dagli asili nido fino alle università pubbliche e private.
La scelta di questa politica dovrebbe mettere al centro del dibattito il ruolo della “persona”. Le famiglie economicamente educate sono propense a risparmiare, ad acquistare beni di prima necessità, a investire nel futuro personale e dei propri figli, pagando per formazioni tecniche, artigianali e linguistiche, uscendo da un’ombra di inettitudine, nell’attesa di un “vero” riscatto.
Come è stato detto, questo piano economico non può essere solo calato dall’alto ma riguarda soprattutto le forze politiche locali, il primo avamposto di trasformazione del territorio.
Anche Roma, dunque, ha di fronte a sé una grande responsabilità. Più volte è stato sottolineato sia dalle organizzazioni, vedi la Caritas, sia dai giornali, come il tessuto cittadino della Capitale si stia sfibrando mese dopo mese. Nel progetto di ricostruzione post Covid oltre all’edilizia sociale, per cui il Campidoglio ha chiesto 2 miliardi di euro al governo, servirebbe urgentemente una proposta educativa, che parta dalla costruzione di nuove strutture in periferia, fino a garantire il diritto alle nuove generazioni di ricevere fin dall’infanzia un’educazione, soprattutto nella fascia di età 0-6, di alta qualità.
Parliamo di asili nido con metodi montessoriani, scuole dell’infanzia bilingue, elementari, medie e superiori con vari approcci multidisciplinari e multilingue, sussidi per l’acquisto di libri, attività sportive inserite nel doposcuola, rette agevolate e stralciate per i redditi più bassi, per poi arrivare all’accesso universitario garantito a tutti.
A Roma, attualmente, vi sono delle scuole, di livello medio\alto, che arrivano a chiedere una retta mensile che oscilla tra i 500 e i 700 euro mensili, un costo esorbitante che esclude automaticamente il 40% dei romani (circa un milione di persone) che vive con un reddito inferiore ai 15 mila euro annui.
Certo, ci sono altri tipi di problemi economici che richiedono la massima attenzione, come il turismo, il commercio e il lavoro, ma quando si parla di lotta alla povertà bisogna seguire la strada che stanno tracciando i ricercatori e capire che rimandare ancora il problema dell’istruzione è una politica disastrosa.
Nel secondo dopoguerra lo Stato si pose l’obbiettivo di abbattere l’analfabetismo, partendo dall’obbligo scolastico e dall’istituzione della scuola materna, lì il miracolo italiano affondò le proprie radici e le generazioni colsero la grande responsabilità che gli venne affidata.
Oggi, invece, crediamo ottusamente che un’economia avanzata si possa permettere di distribuire carte prepagate su cui accreditare redditi mensili, sperando che il futuro sia incentrato su una maggiore capacità di spesa, ma solo quando sarà garantito a tutti il diritto all’educazione potremmo dire di aver intrapreso una “lotta alla povertà”, una condizione che, per quanto ne dica Di Maio, non aboliremo mai del tutto.
2 risposte
Gentile Autore, le faccio i miei complimenti per questo spunto di riflessione che ha e ci ha dato. Si sente parlare solamente di investimenti “materiali” (infrastrutture viarie, di telecomunicazioni, sanitarie) ma mai di investimenti seri nella scuola e nella università.
Grazie
Caro Mario,
grazie a lei per il suo gradito commento. Il tema della scuola e dell’educazione economica ci sta particolarmente a cuore.