Il 2020, anno della pandemia, è stato per l’informazione un annus horribilis. Come ha giustamente sottolineato la stampa estera, le maggiori testate italiane hanno attuato un “giornalismo di bozza”, ovvero hanno concentrato tutte le loro forze, tranne alcune eccezioni, su quello che sarebbe potuto accadere nel nostro paese, sui futuri DPCM, sulle restrizioni e sugli ipotetici andamenti della pandemia, scrivendo e dibattendo su previsioni e non su fatti.
Da due settimane a questa parte l’affacciarsi di Mario Draghi sulla scena politica italiana ha dato nuova linfa, si fa per dire, ai giornali che finalmente, dopo tanto tempo, hanno potuto mettere da parte le loro inchieste di bozza e tornare a fare “informazione”. Sono così comparsi i primi articoli sull’uomo nuovo che dovrebbe traghettare il Paese verso il Recovery Plan.
Ovviamente, nella prospettiva di aprire una nuova stagione, si è sentita l’esigenza di far tornare i cittadini alla normalità e far conoscere Mario Draghi nelle sue più intime caratteristiche. Ma la riservatezza dell’uomo, la sua lontananza dai social, ha lasciato i giornali privi di notizie succulente. Si è così scelto di puntare su aspetti privati: come la passione per il jogging, il rapporto tenero con la moglie, il giornale che compra in edicola, il cornetto integrale e il latte di soia che consuma al bar, fino alla sua residenza romana. “L’uomo dalla porta accanto”, infatti, abita a viale Bruno Buozzi, 18, nel cuore del quartiere Parioli.
Una zona e in particolare una via, quella del Capo del Governo, ricca di architettura e aneddoti. Partendo infatti dalla sua abitazione si può disegnare un breve tour che collega alcuni punti poco conosciuti anche agli stessi romani.
Viale Bruno Buozzi collega il quartiere Parioli con il rione Prati e il quartiere delle Vittorie. Fu edificata attorno al 1938 e denominata in origine “Viale dei Martiri Fascisti”. In un secondo momento, la strada venne dedicata al deputato Bruno Buozzi. Eroe della resistenza romana, prima operaio poi sindacalista, fu amico e compagno di lotta di Sandro Pertini, ucciso durante l’occupazione nazista il 4 giugno 1944.
Il viale, come anche tutto il quartiere dei Parioli, venne investito da un grande slancio edilizio fin dai primi anni ’30. Qui vennero realizzati importanti progetti di architetti e ingegneri che allora si affacciarono alla scena architettonica come dei veri innovatori di stile. Proprio nei dintorni di viale Bruno Buozzi e lungo la sua stessa direttrice si possono ammirare degli edifici annoverati oggi nei manuali di storia dell’architettura e non solo.
A soli 400 metri di distanza dall’abitazione del premier, si può apprezzare il famoso palazzo “Casa del Girasole”. Progettato da Luigi Moretti (tra i più rilevanti architetti del Novecento italiano), fu ultimato nel 1948. L’opera rappresenta l’espressione più matura dell’architetto ma anche della corrente razionalista che proprio in quegli anni si lanciava nell’epoca post-moderna di ricostruzione. Un esempio di architettura ambigua al confine tra tradizione e innovazione.
L’elemento caratterizzante fu quello di inserire una profonda incisione verticale tra due grandi volumi in modo da garantire l’illuminazione naturale a tutti i pianerottoli di accesso agli alloggi. La Casa del Girasole venne scelta da Antonio de Curtis, Totò, come sua abitazione privata.
Totò vi abitò fino al 1958 quando, costretto a sanare un duro contenzioso con il fisco, decise di vendere l’appartamento e trasferirsi in una palazzina poco distante: Palazzo Giammarusti, sempre in Viale Bruno Buozzi, al civico 98 (800 metri dall’abitazione di Mario Draghi).
Questo edificio venne infatti completato nel 1958 e progettato dall’architetto Pietro Lombardi, famoso a Roma per aver disegnato le fontanelle rionali del centro storico. Totò vi si trasferì non appena ultimati i lavori, ma la sua diatriba con il fisco non trovò pace e dopo soli due anni fu costretto a vendere anche questo appartamento, trasferendosi definitivamente in via dei Monti Parioli, 4, alle spalle di Palazzo Giammarusti.
Lo scontro tra il fisco e l’attore si aprì dopo la riforma fiscale Vanoni del 1951. Totò non fece mai segreto dei suoi problemi con le casse dello Stato a cui versava una rata bimestrale di 30 milioni di lire. Famosa la sua frase “Nella vita ognuno ama essere sopravvalutato, ma io lo sono solo dal fisco”.
Abbiamo così visto come la maschera napoletana avesse scelto l’eclettico quartiere Parioli come sua zona di residenza. In effetti i Parioli si contraddistinsero, soprattutto nel dopoguerra, come una zona alto borghese che calamitava gli intellettuali e gli artisti dell’epoca.
Sotto il punto di vista architettonico, fu un importante laboratorio di stile e innovazione. Questa volta, partendo da Palazzo Giammarusti, possiamo addentrarci nelle vie interne del quartiere e, arrivando nei pressi di Villa Elia, fermarci in Via Archimede 156-158 (poco più di 1 chilometro dall’appartamento Draghi). Qui possiamo ammirare la prima palazzina moderna della capitale, risalente al 1930 e realizzata da Gino Franzi.
Luigi Franzi, detto Gino, fu tra i più prolifici e intraprendenti architetti italiani, enfant prodige dell’ambiente, si laureò nel 1924 a 26 anni, e divenne da subito il massimo esponente della corrente razionalista. Vincendo una lunga serie di concorsi nazionali, riuscì a imprimere le sue idee architettoniche nelle maggiori città italiane.
A Roma realizzò diverse opere, ma con la palazzina di Via Archimede si cimentò nella realizzazione di un vero e proprio monumento della città e dell’architettura. Rappresentò, infatti, un cambio di paradigma nel concetto di abitazione residenziale. Qui il razionalismo si manifestò per la priva volta ad uso privato e non più nel magnificare le grandi opere pubbliche. Le sue linee estremamente semplici, i suoi volumi alti in cemento armato con diverse grandezze scandalizzarono i residenti.
Il proprietario della Villa si oppose all’edificio fin dalla sua progettazione e cercò in ogni modo di fermarne i lavori. Ai suoi occhi era inaccettabile inserire nel contesto dei Parioli, allora zona collinare pressoché deserta, una sorta di astronave calata dall’alto e proveniente da un altro mondo.
Il conte Giovanni Emanuele Elia comprò il terreno nel 1921 e ultimò i lavori della sua Villa nel 1924, convinto che in una località così amena nessuno ne avrebbe stravolto l’aspetto. La residenza del conte prese il nome di Villa San Valentino.
Dobbiamo infatti calarci nello spirito politico e artistico del ventennio fascista per capire quanto fossero rivoluzionari i progetti di quei giovani architetti. Il conte Elia non poteva certo immaginare cosa si stesse innescando nella Capitale, e quanto i movimenti futuristi avessero impresso un punto di non ritorno.
La Palazzina Franzi sfidò anche nelle forme la villa del conte. Infatti, sul terrazzo di copertura vennero stilizzate le altane della villa, in chiave nettamente moderna, a indicare la nuova via da seguire, irridendo il passato che sedeva di fronte.
Nessuna rimostranza, nessun legame politico poté fermare l’impeto edilizio di quegli anni. La prestigiosa Villa dovette così convivere con le nuove costruzioni, sempre più numerose, che accerchiarono il suo perimetro anno dopo anno. Il vecchio conte morì cinque anni dopo la fine dei lavori della Palazzina Franzi. La vedova, Beatrice Benini, vendette la Villa nel 1945. Divenne sede dell’ambasciata del Portogallo presso la santa Sede e in ricordo del conte venne rinominata Villa Elia.
Mettendo accanto la foto dell’allora cantiere della Villa con la palazzina Franzi distante soltanto pochi metri, possiamo perfettamente immaginare lo stato di disorientamento che provò il conte nel vedere i lavori ultimati. Gli anni ‘40 e poi gli anni ‘50 portarono avanti l’urbanizzazione dell’intero quartiere con altre innovative costruzioni: Palazzo Luccichenti a via San Valentino, Palazzo Gio Ponti a piazza delle Muse, solo per citarne alcuni.
Roma riesce a regalarci anche queste peculiarità. La città dei monumenti classici sembra distante da questi luoghi ma non per questo priva di storia e di aneddoti.
Purtroppo, siamo finiti in un cono d’ombra dove pensiamo che leggere di un cornetto e un cappuccino sia sufficiente a raccontare le cose straordinarie che avvengono in una città, quelle che appunto una volta nelle guide medievali venivano chiamate “mirabilia”.
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